Patriarcato e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
“Our cities are patriarchy written in stone, brick, glass and concrete”: scrive Jane Darke in un saggio del 1996, intitolato The Man-Shaped City (1996). In una società in cui domina il modo di produzione capitalistico, il patriarcato è ovunque, sia dentro che fuori di noi, addirittura dove ci si illude che non sia più presente: in particolar modo se neppure lo si nomina, e soprattutto se non lo si vede perché non lo si vuole vedere. Anzi, proprio a causa di tale rimozione, il patriarcato è in realtà più forte che mai. Nasce così la domanda, posta da Carol Gilligan e Naomi Snider in un libro del 2018: Why Does Patriarchy Persist? Nella prefazione all’edizione italiana (Perché il patriarcato persiste?), Wanda Tomasi chiarisce che il patriarcato può attecchire a livello inconscio, anche se in forma cosciente viene condannato. Radicato insomma fin nelle pietre, nei mattoni, nel vetro e nel cemento delle nostre città. Nella società borghese, sono infatti in vigore stereotipi devastanti per entrambi i sessi: da un lato, le donne sono invitate a frenare la propria voce, per conformarsi a ciò che ci si aspetta da loro, la “cultura del silenzio”; e, d’altro canto, gli uomini sono invitati a tacitare ogni bisogno di intimità, sviluppando la “cultura della violenza”. Il patriarcato prospera grazie a questa divisione familiare e sociale del lavoro garantita da due modelli contrapposti: femminilità altruistica ed emotiva e mascolinità assertiva e indipendente. Perché l’idea di una città femminista inizi a concretizzarsi occorre attendere, nel maggio del 2021, a Santiago del Cile, la vittoria di Irací Hassler (Irací è nome di origine indigena, che significa “regina delle api”), prima sindaca al mondo dichiaratamente femminista. Ma già sei secoli fa, rimasta vedova a venticinque anni (con tre figli e una madre a cui pensare), Cristina da Pizzano scrive nel 1405 La cité des dames (La città delle dame), in cui confessa la propria abitudine a dedicarsi allo studio delle lettere (“en la frequentacion d’estude de lettres”). Così, assorta fra i libri, viene a trovarsi di fronte a un ennesimo testo misogino. Nasce pertanto in lei la curiosità di interrogarsi sul perché scrittori pur diversi tra loro (“tant de divers hommes”), concordemente ancorati a pregiudizi nei confronti delle donne, sembrino tutti parlare con la stessa bocca e giungere a una medesima conclusione (“semble que tous parlent par une mesmes bouche et tous accordent une semblable conclusion”). Anticipando i risultati a cui pervengono oggi Carol Gilligan e Naomi Snider, Cristina da Pizzano esibisce qui, fronteggiando la cultura della città patriarcale, la propria “disconnessione cognitiva” (“cognitive disconnection”, secondo la formula di John Bowlby): per un verso, esaminando se stessa e la propria condotta, non riesce a riconoscere il fondamento di una misoginia così universale; per altro verso, lei stessa continua a pensare male delle donne, ritenendo ben poco verosimile che uomini così famosi, intellettuali di grande intelligenza, sapienti in tutto, abbiano potuto scrivere tali menzogne in ogni libro. “Era in questo modo ‒ spiega ‒ che mi affidavo più ai giudizio altrui (jugement d’autrui) che a ciò che io sentivo e sapevo (ce que moy mesmes en sentoye et savoye)”. All’interno della città borghese, le donne si trovano di fronte a questa alternativa: disconnettere le proprie emozioni dai propri pensieri, rinunciando a quello che sanno per affidarsi a saperi a loro stesse ostili, oppure riconnettere le proprie emozioni e i propri pensieri, decostruendo la città patriarcale e rifondando ex novo la città stessa.