Dire d’amore e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
In una pagina della Vita nova il giovane Dante afferma che l’esistenza di un pubblico femminile è alla base del sorgere della poesia in volgare: “lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini”. In altre parole: la rinuncia a scrivere in latino (che le donne avrebbero difficoltà a comprendere) e il conseguente sorgere di un’espressione letteraria in rima sarebbero determinati dalla materia “amorosa”, ossia dalla necessità di “dire d’amore”. Resta tuttavia aperto un problema che il poeta fiorentino in un primo momento rimuove, o almeno inizialmente non si pone: quello del perché le donne, agli albori della poesia moderna, siano destinate a essere, almeno in Italia, oggetto di scrittura maschile e non esse stesse soggetto culturale, non scrittrici (poetesse) in prima persona. Del resto, perché mai a una donna sarebbe preclusa una tale iniziativa? Conoscendo i romanzi francesi (“Arturi regis ambages pulcherrime”, secondo la definizione del De vulgari eloquentia),Dante sa che nella famosa scena del bacio non è affatto Lancillotto, ma la regina Ginevra ad afferrare il timido cavaliere per il mento, unendo abbastanza a lungo (in presenza di Galeotto) le proprie labbra alle sue: “Et la roine voit que li chevaliers n’ose plus faire, si le prent par le menton et le baise devant Galahot assés longuement”. Ne consegue che, fra i lussuriosi infernali, una volta evocate “prose di romanzi”, la sventurata Francesca, nel tentativo di riversare su Paolo la responsabilità di un bacio alla francese (è il caso di dire), non può che apparire tragicamente comica a lettrici e lettori contemporanei del poeta. Se in una pagina d’amore aristocratico del Lancelot en prose, è l’intraprendente regina a baciare il suo eroe, non appena il mondo feudale incomincia borghesemente a vacillare, ecco che nella prosaica vita di tutti i giorni una donna della classe dominante non può più permettersi il lusso di agire. La “prima donna della nostra letteratura”, come la etichetta De Sanctis (trasformandola ideologicamente in eroina romantica), si vede infatti costretta a ridursi a oggetto di iniziativa maschile. La regina vera e propria (aristocratica) cede così il posto alla regina del focolare domestico (borghese). Eppure, se guardiamo alla lirica provenzale, a scrivere non sono solo trovatori, ma anche trovatrici: la lirica in lingua d’oc si sviluppa in ambiente aristocratico. Si pensi alla più famosa delle “trobairitz”, Beatrice, non per caso contessa di Dia, vissuta nella seconda metà del XII secolo tra Provenza e Lombardia, che nella canzone “Estat ai en greu cossirier” esprime apertamente il desiderio di baciare (il che una donna borghese non potrebbe impunemente permettersi): “Bels Amics, avinens e bos, / cora ·us tenrai en mon poder, / e que iagues ab vos un ser, / e qe ·us des un bais amoros?” (“O bell’amico, cortese e gentile, / quando potrò tenervi in mio potere, / e giacere con voi per una sera, / e dare a voi un amoroso bacio”). Col sorgere del modo di produzione capitalistico, le pari opportunità erotiche vengono meno e, in letteratura, nella borghese Firenze, una donna può baciare di sua iniziativa solo nei volgarizzamenti trecenteschi delle epistole di Ovidio (opera di Filippo Ceffi): per esempio in quella di Ero a Leandro (“Deh, or come potre’ io racontare quante volte io bacio…”) o in quella di Briseide ad Achille (“io mi parti’ da te senza darti alcuno bacio”).