Le scrittrici e la storia letteraria
Di Federico Sanguineti
In un mondo capitalisticamente globalizzato, in cui ‒ dati offerti dalla presidente del Gender group istituito dalla Caritas nel 1999, Anne Dickinson – le donne detengono meno dell’1% della proprietà privata del pianeta, costituendo, ogni giorno di più, la stragrande maggioranza dei poveri fra i poveri, non c’è da stupirsi di quanto ne consegue: 1) producendo i due terzi della ricchezza mondiale e svolgendo il 70% del lavoro salariato, le donne ricevono solo un decimo degli introiti disponibili e del reddito complessivo; 2) le retribuzioni femminili non raggiungono in media il 75% di quelle maschili. Infine: 3) date queste condizioni storiche di ineguaglianza materiale, ogni donna si presenta sul piano ideale, per il pensiero (maschile) dominante, come “oggetto” incomprensibile: a prima vista, qualcosa di triviale, ovvio; ma, al tempo stesso, un idolo pieno di sottigliezza metafisica e capricci teologici. “Siamo così, dolcemente complicate…”, cantava Fiorella Mannoia nel 1988, alla vigilia della caduta del muro di Berlino, in una canzone non scritta da lei, ma da due uomini: Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone. Quello che le donne non dicono lo sa dunque, a parole, una coppia di maschi. Come dovevasi dimostrare: “è difficile spiegare… lascia stare…”.Nella prefazione alla più monumentale delle sue opere, L’idiot de la famille, Jean-Paul Sartre si chiede: “che cosa si può sapere di un uomo, oggi?”. Il filosofo, dando per scontato che la stessa domanda, formulata in relazione al “secondo sesso” (“che cosa si può sapere di una donna, oggi?”), sia inimmaginabile (o comunque di nessuna importanza), pone così, al centro della propria ricerca, come “soggetto”, un essere umano di sesso maschile: “che cosa sappiamo ‒ si domanda ‒ di Gustave Flaubert?”. Ma se il pensatore affronta tale questione, perché non fare altrettanto riguardo a una donna? Che cosa sappiamo, per esempio, di Gormonda di Montpellier? Sappiamo che è una scrittrice attiva nella prima metà del Duecento, a cui si deve una poesia politica, il sirventese Greu m’es a durar. Che cosa sappiamo, ancora, di Marguerite d’Oingt, vissuta fra il XIII e il XIV secolo? Sappiamo che scrive in latino e, nel suo libro intitolato Pagina meditationum, vede in Gesù la propria madre. Notizie e testi sono reperibili in un attimo sul web, ma ancora oggi, per chi volesse studiare su manuali imposti dai programmi ministeriali, si troverebbe di fronte a un silenzio (imbarazzato e) imbarazzante. Si capisce: le trovatrici, per cominciare, manifestano libertà inimmaginabili in un contesto (patriarcale) borghese. Si pensi alla canzone “Estat ai en greu cossirier”, dove l’autrice, Beatrice di Dia (Beatritz de Dia), esprime ciò che, sul piano letterario come su quello erotico, una donna borghese difficilmente potrebbe permettersi: “Bels Amics, avinens e bos, / cora ·us tenrai en mon poder, / e que iagues ab vos un ser, / e qe ·us des un bais amoros?” (“O bell’amico, cortese e gentile, / quando potrò tenervi in mio potere, / e giacere con voi per una sera, / e dare a voi un amoroso bacio?”). E ancora: “sapchatz, gran talan n’auria / qe ·us tengues en luoc del marit, / ab so que m’aguessetz plevit / de far tot so qu’eu volria” (“Gran desiderio sappiate che avrei / di tener voi al posto del marito / se solamente in cambio promettiate / di compier tutto quello che io vorrei”). Morale della favola: ogni giorno è il 25 aprile, perché il processo di liberazione della soggettività femminile è conditio sine qua non di ogni altra liberazione.