Poesia, finzione e verità
Di Federico Sanguineti
Negli anni successivi alla Rivoluzione francese (1789), il rapporto fra poesia e verità è un problema che da più parti si pone: si pensi all’accostamento di Dichtung und Wahrheit (1811), Poesia e verità, che entra nel titolo di un’opera autobiografica in cui Goethe pone a confronto la verità della propria vita con quella della poesia. Non occorre qui ricordare i versi 49-50, ancora oggi proverbiali, che sigillano Ode on a Grecian Urn (Ode su un’urna greca) di Keats, scritti nel 1819: “Beauty is truth, truth beauty, ‒ that is all / Ye know on earth, and all ye need to know” (Bellezza è verità, la verità bellezza, ‒ questo è tutto / il sapere sulla terra, e tutto ciò che vi occorre sapere”). Ma, ancor prima della cosiddetta età romantica, resta da chiedersi se il maggior poeta italiano, per non dire il maggiore di ogni tempo, Dante, si sia posto il problema del rapporto fra poesia e verità e come lo abbia affrontato e risolto. I dantisti continuano a interrogarsi sulle parole del De vulgari eloquentia (II iv 2), secondo cui la poesia è ‘fictio’ (finzione) “rethorica musicaque poita” (costituita da retorica e musica). A prima vista, una insormontabile difficoltà si pone nel momento in cui alla luce di questa definizione si legga il Poema Sacro, dove l’autore ambisce, com’è noto, a esprimere in versi una Verità assoluta, quella per cui Cristo è Via, Verità e Vita. Per uscire da tale vicolo cieco, occorre ricordare, nel capitolo conclusivo del Vangelo di Luca (24, 28), l’esperienza di Gesù risorto che a Emmaus, in abito da viaggio, fa come se volesse andare oltre (“et ipse se finxit longius ire”), mostrandosi ad un tempo riconoscibile e irriconoscibile (24, 31). L’episodio è rievocato nell’ultimo componimento della Vita nova, il sonetto Oltre la spera che più larga gira, dove Beatrice morta (in modo analogo a Cristo) si manifesta al “peregrino spirito” (v. 8) come essere incomprensibile, “io no lo intendo” (v. 10), e, al tempo stesso, comprensibile, “io ’ntendo ben” (v. 14), preannunciando, si potrebbe dire, che “la fictio della Divina Commedia è che non è una fictio” (secondo la formula di Singleton). In altre parole, Luca sta a Cristo come Dante sta a Beatrice. Se ne deduce che la poesia, la quale, in quanto finzione, per san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, q. I a. 9 arg. 1) è l’ultima fra le dottrine (“infima inter omnes doctrinas”), si trasforma viceversa per Dante in strumento di risurrezione: morendo, sia l’una (Beatrice) che l’altro (Cristo) fingono di allontanarsi, ma in verità sono dentro di noi, come testimonia l’affermazione del Poeta, secondo cui Beatrice è la “viva Beatrice beata” (Convivio II viii 7). Ma può la Verità essere finzione? Non si tratterà, per caso, di ipocrisia? O di simulazione? Perché Cristo, e con lui Beatrice, fingono e pertanto sono “finzioni”? E qual è il confine fra finzione (poesia) e verità? Per i padri della Chiesa, ad esempio Agostino, e gli scolastici medievali come Tommaso (Summa Theologiae II-II, q. 111 a. 1 ad 1), nel caso in cui si finga una verità priva di fondamento, si tratta di menzogna (“mendacium”), ma se la “fictio” si riferisce a qualcosa di significativo è figura di verità (“figura veritatis”). Per ecfrasi, come in pittura in poesia, seguendo Orazio (Ars poetica 361), dopo la morte di Beatrice, Dante disegna nella Vita nova “figure d’angeli”. Finalmente, bene o male, nel Purgatorio (XXXII 67-69) tutto è finzione, cioè Verità; e ‘pingere’ è in rima con ‘fingere’: “come pintor che con essempro pinga, / disegnerei com’io m’adormentai; / ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga”.