Poesia alla luce del Vangelo
Di Federico Sanguineti
È nell’anno di nascita della Società Dantesca Italiana (1888) che Engels pubblica l’opuscolo dedicato a Feuerbach e al punto di approdo della filosofica classica tedesca (Ludwig Feurbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie), in appendice al quale inserisce le Thesen über Feuerbach, scritte da Marx all’età di ventisei anni (aprile 1845) e rimaste fino a quel momento inedite. Nell’ultima di queste, la più celebre, si legge che i filosofi hanno solo interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo. Precursore di quella che Gramsci definirà “filosofia della prassi” è peraltro Dante in una pagina del trattato politico intitolato Monarchia (I iv 1), dove, chiarito a sufficienza che l’attività propria del genere umano preso nel suo insieme (“proprium opus humani generis totaliter accepti”) è attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile (“est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis”), precisa che ciò avviene in due momenti: in primo luogo, in modo speculativo (“per prius ad speculandum”), quindi in modo pratico (“ad operandum per suam extensionem”). La teoria si estende così fino alla prassi: ovvero, come chiarisce Lenin a riguardo, “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario” (Che fare?). Tuttavia ogni rivoluzione ha la sua poesia, e la poesia di una rivoluzione che, per la prima volta nella storia, mira a dare l’assalto al cielo, ossia a realizzare il paradiso in terra, insomma una società senza classi, non può che venire dal futuro, secondo quanto afferma Marx nel 1852 (Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte), quando scrive che la rivoluzione proletaria “non può cominciare a essere se stessa prima di aver liquidato ogni fede superstiziosa nel passato”; e aggiunge che, proprio in quanto rivoluzione proletaria, “deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti”. Quest’ultima affermazione è tratta, pari pari, dal Vangelo di Luca (9, 60), proprio quel Vangelo, guarda caso, a cui Dante è maggiormente affezionato, dove, dopo la frase citata, si legge che “chiunque si volta indietro, non è adatto per il regno di Dio”, cioè per quel Paradiso che è vertice della poesia, disprezzato come poco poetico dai borghesi, che preferiscono, si capisce, identificarsi con personaggi della società corrotta (Inferno capitalistico). In realtà, la terza cantica è quella dove il Sommo Poeta delinea una società ideale: il regno della libertà in cui, abolita la proprietà privata, ognuno riceve “secondo il bisogno” (Acta Apostolorum 4, 35). Conoscendo Luca e Dante a memoria, Marx spiega che, diversamente da quelle borghesi, le rivoluzioni proletarie non solo “sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse”, ma “si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare”. In queste righe sembra riecheggiare sia la lettura di Luca (9, 62), cioè l’impossibilità, sottolineata da Gesù, di tornare indietro, che l’eco della rosa dell’empireo, avente come presupposto la danza in Pg XXXI 104 (“dentro a la danza de le quattro belle”), nonché la letizia di Pd VII 7, quando “essa sustanza e l’altre mosser a sua danza”; o, ancora, “la doppia danza / che circulava il punto dov’io era” (Pd XIII 20). La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma, in fin dei conti, almeno in poesia, un salto.
Federico Sanguineti