Di Federico Sanguineti
In che cosa consiste (per riprendere il titolo di un libro del 1970 di Gianfranco Contini) la Letteratura italiana delle Origini? Dipende dai punti di vista: da un lato, nella Storia della letteratura italiana che vede la luce in nove tomi (1772-1782) ‒ ed è la prima a recare tale intestazione ‒, il gesuita Girolamo Tiraboschi dedica il primo volume alla cultura “degli etruschi, e de’ popoli della Magna Grecia, e dell’antica Sicilia, e de’ romani fino alla morte d’Augusto”; viceversa, in altra opera storiografica, con identico titolo ma di più modeste proporzioni, pubblicata cent’anni dopo (1870) da Francesco De Sanctis, si liquida il mondo classico greco-latino e si comincia dal XIII secolo coi Siciliani, anzi con Rosa fresca aulentissima, contrasto giullaresco fino a noi pervenuto grazie a un paio di carte, 15r-16r, del codice Vaticano latino 3793 (https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.3793), ma ricordato da Dante come esempio di siciliano non illustre nel De vulgari eloquentia (I, XII 6). Chi ha ragione: Tiraboschi o De Sanctis (e quindi Contini)? Senza dubbio Tiraboschi se, aprendo l’Eneide di Virgilio, ci imbattiamo nei versi iniziali del terzo libro, resi così in endecasillabi da Annibal Caro nel 1581: “Poi che fu d’Asia il glorïoso regno / e ’l suo re seco e ’l suo legnaggio tutto, / com’al cielo piacque, indegnamente estinto, / Ilio abbattuto e la nettunia Troia / desolata e combusta; i santi augúri / spïando, a vari esigli, a varie terre / per ricovro di noi pensando andammo”. Ma se si risale direttamente agli esametri latini abbiamo di fronte in nuce quasi l’intera letteratura nazionale: da Dante (“superbum Ilium” è il “superbo Ilïón” di Inferno I 75) fino a Foscolo (“diversa exsilia” è “il diverso esiglio” del sonetto A Zacinto). Con De Sanctis ministro della Pubblica Istruzione, l’ideologia romantico-borghese si limita istituzionalmente a fare storia di sé, nel tentativo di risolvere il trauma della propria nascita, vale a dire ciò che Harold Bloom definirebbe “angoscia dell’influenza”, The anxiety of Influenxy (1973). Si tratta per la borghesia di cancellare in primo luogo l’operato culturale delle donne, anche solo al fine di omettere quanto storicamente esse abbiano influenzato quello degli uomini. Eppure, per fare un esempio, l’incipit leopardiano dell’Ultimo canto di Saffo, “Placida notte…”, sarebbe impensabile, come ha mostrato Enrico Thovez, se Petronilla Paolini Massimi, in Arcadia “Fidalma Partenide”, non avesse scritto una canzone che appunto comincia: “Quando dall’urne oscure / placida notteamica…”. La donna in carne e ossa, resa invisibile, è surrogata da stereotipi. Contrariamente a quanto affermato dal succitato Bloom, professore di Yale University (The Western Canon, 1994), secondo cui ‒ insieme al multiculturalismo ‒ il femminismo costituirebbe una “Scuola del risentimento” intenzionata a distruggere il cosiddetto “Canone”, è la storiografia borghese ad attuare un vero e proprio femminicidio culturale. Per quanto riguarda la didattica, nasce così lo scandalo denunciato da Dale Spender, curatrice, insieme a Elisabeth Sarah, di Learning to Lose: Sexism and Education (1980) e di una serie di lavori non a sufficienza conosciuti in Italia, come Invisible Women: The Schooling Scandal (1982) e The Writing or the Sex? Or, Why You Don’t Have to Read Women’s Writing to Know It’s No Good (1989). Sparite dai libri scolastici le scrittrici, fonte di angoscia borghese, restano, sul palcoscenico dell’università, le “figure femminili”.