Il critico musicale per antonomasia, si è spento nella sua casa napoletana. Amato e parimenti odiato da pubblico e artisti dalle sue feroci stroncature al vetriolo, fu uno dei “padrini” del luminoso Salerno Festival
Di Olga Chieffi
Paolo Isotta, il “borbonico”, l’intellettuale napoletano, che parlava la “sua” lingua in pubblico e il francese con gli amici, la penna al veleno dall’ inconfondibile stile ciceroniano, con cui ha costruito le sue indimenticabili stroncature come esaltanti e altisonanti panegirici, sua l’arte della recensione, che nasce dagli studi infiniti di musica, lettere, arte, dal continuo dialogare con il bello, è finito solo, nella sua antica casa, di Corso Vittorio Emanuele, a getto sul Golfo di Napoli. Rivelò, che il Paolo Isotta critico, narratore, musicologo, dalla battuta sferzante, fosse nato nella sterminata biblioteca di famiglia, tra le lettere, la giurisprudenza, il magistero pianistico di Vincenzo Vitale, quello di composizione di Renato Parodi e Renato Dionisi, studi che lo portarono anche a tentare l’insegnamento di storia della musica nei conservatori, per poi lasciarlo “per progressiva intolleranza verso gli allievi attuali”. Guai a chiamarlo Maestro, termine abusato e vìolato (ma i grandissimi non si predicano!), lui che faceva distinzione tra strumentista e musicista, secondo i dettami dell’estetica platonica, sostenitore della destra hegeliana, una rara avis, simbolo di una specchiata onestà intellettuale ed estetica, racchiusa e finalizzata alla più assoluta devozione nei confronti della Musica e delle arti tutte. La sterminata erudizione che era la base su cui costruiva ogni articolo, sia esso di elogio o la più feroce delle stroncature, lo rendeva assolutamente inattaccabile e per questo godeva di schiere di ammiratori e falangi di nemici. Noto il “coccodrillo” di Luciano Pavarotti che definì analfabeta musicale, e anche di Renato Bruson, scrisse che sconosceva il solfeggio e per questo, il baritono che ha chiuso la sua carriera proprio qui a Salerno, chiese la testa dell’allora giovane critico, ma Indro Montanelli, la negò. Poi, la ignominiosa caduta di stile del teatro La Scala, sull’attacco di “Paolino” sia ad Harding che ad Abbado, dalle pagine del Corsera, e la decisione di considerare “non gradito” il critico da parte dell’ allora soprintendente Lissner, oggi al San Carlo, “un’idea che neanche nell’Uganda di Idi Amin aveva asilo”, commentò l’ Odg. Dopo due anni, la decisione di lasciare il Corriere per tornare a “fare il musicista”. Si, Paolo Isotta ha fatto sempre musica con la parola, ponendosi a servizio di un symbolon generante incessantemente nuove nascite e figure, presupposto per il quale ciò che rimane “nascosto” non stabilisce il limite e lo scacco del pensiero, ma ne costituisce il terreno fecondo ove, qui solo, il pensiero può fiorire e svilupparsi. A Salerno, oltre le presentazioni degli ultimi suoi libri, “La virtù dell’elefante” e “La dotta lira”, è stato protagonista di un periodo d’oro della musica cittadina, ovvero gli anni del Salerno Festival, ideato dai germani Vittorio e Giulia Ambrosio, che prevedeva la sessione estiva nel quadriportico del duomo, con la grande musica sinfonica e le massime bacchette e orchestre del mondo, oltre a dei progetti speciali “ordinati”, in esclusiva, dalla direzione artistica, e la cameristica, in inverno, nella chiesa di San Benedetto. Le introduzioni dei libretti di sala erano firmate da Paolo Isotta. Spesso era in sala, insieme a Quirino Principe un altro habituè del festival, che vantava una tribuna stampa ben sopra le righe. Ultimavamo gli studi in conservatorio in quegli anni, il maestro Vittorio Ambrosio che crede nei suoi allievi, ci volle lì: la pagina musicale di questo quotidiano, basata sulla recensione, coraggiosa, rigorosa, tecnica, senza compromessi, a volte inadatta al target del giornale popolare, magari narcisista, è nata in quel contesto di assoluta bellezza e armonia, di parola e musica. Poi, quel settembre del 1992, sullo scalone del Duomo, alle 12, sotto il sole, Vittorio Ambrosio e Paolo Isotta, a far anticamera oltre un’ora, dal vescovo Gerardo Pierro, per una stagione che avrebbe salutato a Salerno, alla direzione dei suoi Munchner Philarmoniker, Sergiu Celibidache, per l’esecuzione dell’incompiuta di Franz Schubert e la Pastorale di Ludwig Van Beethoven. Causa di questo assassinio nella cattedrale, fu l’imminenza dei festeggiamenti per San Matteo. Il giorno dopo, l’8 settembre, Salerno guadagnò la prima pagina del Corsera, con il tombale articolo di Paolo Isotta “Il maestro e il sagrato proibito”, che chiude con “Per monsignor Pierro fra Sergiu Celibidache e i Filarmonici di Monaco, e la banda di Coperchia, suo paese natale, col suo maestro, non c’è differenza”.