di Matteo Gallo
La legna della passione politica gli brucia dentro fin dal principio. E’ come una fiamma del destino. Arde e riscalda la casa di via Tasso sessantuno, nel cuore del centro storico alto, dove da bambino ha abitato con gli amati genitori e dove aveva avuto la residenza lo zio Nicola Fiore, figura nobile dell’antifascismo meridionale dal quale erediterà con tutta evidenza della storia non solo il nome. Nicola Scarsi, classe millenovecentoquarantaquattro, assessore e vicesindaco al Comune di Salerno alla fine degli anni Ottanta, già segretario provinciale del partito repubblicano, è soprattutto z xzxun uomo di grande cultura. Entrambe -cultura e politica- attraversano per intero la sua formazione personale e accademica tenendosi insieme nel segno di quella «humanitas» di tradizione antica e retaggio classico, tra latino e greco, che sono allo stesso tempo preciso tratto identitario nello spirito e prezioso patrimonio (im)materiale frutto di studi al liceo Torquato Tasso e all’Università di Napoli. A soli ventiquattro anni è già in aula ad insegnare, a trentotto abilitato a esercitare la funzione di preside dopo il superamento della prova concorsuale. Proprio nella veste di dirigente scolastico, agli inizi degli anni duemila, scriverà una pagina indimenticabile del liceo scientifico Da Procida. Indimenticabile e da record con gli studenti che saranno il doppio di mille unità e si dovrà procedere attraverso sorteggio con le nuove iscrizioni. Un dato storico riportato dai principali giornali dell’epoca, molti dei quali fanno ancora da cornice, in cornici rettangolari di legno, al corridoio che dall’aula dei professori va alla presidenza al primo piano del plesso di via Gaetano de Falco, al quartiere Carmine.
Preside Scarsi, quando e come ha inizio la sua storia con la politica?
«La mia passione politica nasce all’interno dell’atmosfera familiare, grazie in particolare alla presenza di mio zio Nicola Fiore, personaggio illustre che ha combattuto in nome di principi e ideali di difesa e valorizzazione della classe operaia, una nobile figura dell’antifascismo meridionale. Con la mia famiglia abitavo nel cuore del centro storico di Salerno, in via Tasso 61. In casa ho sempre respirato un clima democratico. Da studente liceale ho poi sentito il bisogno di capire e approfondire la realtà amministrativa politica, a livello salernitano e a livello più generale, affrontando appassionati discussioni anche di carattere ideologico».
Perché il partito repubblicano?
«In questa stagione della mia vita ho incontrato Ugo La Malfa, che nel panorama nazionale mi apparve come l’unico politico dalle idee chiare, convergenti verso una politica dei fatti e delle cose da fare, delle previsioni concrete. La mia vera scelta di campo fu quella di recarmi nella sede del partito repubblicano di Salerno, allora a via Cuomo. Avevo sedici anni e frequentavo il liceo classico Tasso. Illuminante, per me, fu in particolare la lettura delle note aggiuntive al bilancio di La Malfa, allora ministro della Repubblica, in cui prospettava una economia di mercato corretta da interventi sociali. Ugo La Malfa, siciliano, era figura autorevole, importante e riconosciuta per competenza e per attaccamento alla base sociale. Da quel momento sono stato legato al partito repubblicano con intervalli di intensità differente a seconda delle situazioni, svolgendo fin da subito a livello interno un ruolo di orientamento culturale, sancito da congressi cittadini e nazionali».
Come viveva un giovane repubblicano, da una posizione minoritaria rispetto al rapporto di forze all’interno dell’arco costituzionale, il confronto con i suoi coetanei?
«Era duro per un repubblicano confrontarsi da minoranza con maggioranze che traboccavano in termini di percentuali alle elezioni. Un ricordo personale di giovinezza mi richiama alla mente numerose e appassionate dispute con compagni di classe e di liceo, sulle basi ideologiche delle forze politiche di riferimento. Per me il partito repubblicano aveva una visione più moderna rispetto, ad esempio, al partito socialista, legato ancora a schemi superati. Era impegnato per i diritti umani e civili e ricoprì un ruolo senza dubbio importante nelle battaglie laiche»
Quando il primo impegno elettorale?
«Nel 1980 mi sono presentato come consigliere comunale risultando il primo dei non eletti. Presi circa cinquecento voti. Nei cinque anni successivi ho svolto funzioni importanti nel partito attendendo il 1985, data in cui mi sono ripresentato alle elezioni amministrative per il comune capoluogo. In quella competizione fui eletto raddoppiando le preferenze: presi 1200 voti».
Che ricordo ha di quella esperienza?
«Una esperienza politica importante e sul piano amministrativo abbastanza efficace. Molti progetti per la città di Salerno nacquero, in termini di riflessione e di prima elaborazione, proprio in questo periodo. Penso in particolare a settori strategici come il comparto scuola e i piani urbanistici».
Lei è stato assessore alla Cultura e alla Pubblica istruzione. Da uomo della scuola, come visse quell’incarico?
«La scuola era sofferente e in difficoltà per vari motivi, in particolare per le criticità legate all’edilizia. Dovetti affrontare immediatamente un intervento speciale finalizzato a ridurre eventuali danni e pericoli sul terreno della sicurezza. Mi concentrai sui punti più deboli e poco protetti, cercando i finanziamenti necessari e attivando alcune leggi nazionali. Esistevano criticità relative anche a un diritto allo studio carente e disorganico, per cui fu necessario aprire e riaprire le mense scolastiche in modo da assicurare il tempo pieno».
Storica la sua battaglia a favore della scuola elementare Vicinanza che la vide, anche mediaticamente, contrapposto all’allora prefetto Catenacci.
«La scuola Vicinanza avrebbe dovuto spostarsi dal proprio plesso per “motivi di sicurezza” come da determina dell’allora prefetto Catenacci. Io mi opposi a questa decisione difendendo la scuola e invocando il primato della cultura su quello giudiziario. Minacciai anche le dimissioni da assessore. Naturalmente portati in Consiglio comunale una relazione programmatica studiata analiticamente e corredata da una serie di proposte con ragionevoli motivazioni di fondo, in riferimento al piano strategico di collocazione delle scuole. Avevamo individuato il plesso di Via Prudente per accogliere le richieste del comparto giudiziario. Alla fine il Vicinanza restò al suo posto ed io ebbi così la possibilità di riaprire le scuole al cento per cento, così come era stato indicato dai tecnici del comune e in maniera coerente con la programmazione generale del ministero».
Con chi altri, in quegli anni, ebbe particolari ragioni di scontro politico e amministrativo?
«A livello personale non ci furono rapporti segnati da particolari scontri e disistima, che si evidenziavano attraverso una visione diretta e di controllo delle delibere da adottare. Ci furono certamente degli scontri su alcune materie, in particolare, per quanto mi riguardava, sulle scuole occupate ancora dai terremotati e, in generale, su qualsiasi tipo di spreco di denaro. Quando entravo in giunta mi chiamavano scherzosamente “Coreco”, per indicare una persona impiegata presso l’organo con funzioni di controllo rigoroso sugli atti degli enti locali».
Lei ha vissuto da protagonista la “seconda svolta di Salerno”, la giunta laica e di sinistra guidata dal socialista Vincenzo Giordano, nella quale è stato anche vicesindaco.
«Con tutti i limiti dei processi amministrativi, la giunta laica e di sinistra segnò una svolta di rinnovamento e di impegno più organico e coerente. Dal 1987 al 1990 mise le basi di una produzione amministrativa in tutti i settori nevralgici della città. Giordano fu un un buon sindaco. Un sindaco perbene e gentile, un galantuomo».
Quella esperienza di governo si concluse a causa delle inchieste giudiziarie del 1992 che travolsero per intero la Prima Repubblica
«C’era una atmosfera di precariato e di preoccupazione per le vicende legate al rapporto tra politica e giustizia. Questo produsse confusione, danni e frustrazioni. In nome di una analisi culturale più dettagliata, sarebbe opportuno approfondire la genesi delle singole questioni, per verificare se vi furono alterazioni di qualche potere sugli altri. Certo, il clima su questo punto era di confusione se non di paura. A livello generale si evidenziò una debolezza della politica che, al di là del merito delle questioni, ebbe totalmente un atteggiamento di sudditanza e di assenza».
La politica, tutta, da destra a sinistra si mostrò eccessivamente debole?
«La politica non reagì con la dovuta forza e decisione e finì per danneggiare se stessa preparando la stagione dei singoli, di quegli aggregati non di partito ancorati a leadership personali. Questo ha creato nuovi squilibri tra i due poteri: politico e giudiziario».
Come visse quelle fasi concitate immediatamente successive al terremoto giudiziario che colpì il Comune di Salerno ?
«Ventiquattro consiglieri fecero il mio nome. Mi chiesero di verificare, con un mandato cosiddetto esplorativo, la possibilità di una maggioranza politica. Avevo appoggi nella Dc, di qualche socialdemocratico, naturalmente del mio partito. Non era una maggioranza granitica sul piano politico e questo mi rendeva perplesso. In campo c’era naturalmente anche Vincenzo De Luca. Ma pure lui non aveva numeri sufficienti. Eravamo giunti al punto massimo e limite della responsabilità di far fallire quella esperienza di governo. In quel momento, allora, mi fermai a riflettere. Ragionai da semplice cittadino e dissi a me stesso: “Una buona amministrazione vale più di un commissario”. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Feci un passo indietro e fu varata la giunta De Luca».
E arriviamo al 1993. Amministrative a Salerno, elezione diretta del sindaco per la prima volta: De Luca vince.
«Alle elezioni del 1993 sostenni il professore Pino Acocella, candidato sindaco di centro sconfitto al ballottaggio da De Luca. Dopo di allora continuai a fare il segretario provinciale del partito repubblicano ma non mi candidai più. A tutti quelli che mi chiedevano un ritorno in campo rispondevo sempre la stessa cosa: “Ho già dato”.»
Qual è il suo giudizio sulle stagioni di De Luca sindaco di Salerno?
«Nonostante una critica sugli atteggiamenti e sui metodi di conduzione, De Luca è stato per la città di Salerno un ottimo amministratore. Lo dico da cittadino che ha lasciato gli interessi della politica e ha seguito con occhio critico l’operato delle sue giunte. Su molte cose realizzare sono d’accordo. Non su tutte. Penso alla Cittadella giudiziaria. Alla fine degli anni Ottanta avevamo deliberato la sua collocazione in un’area vicino alla Centrale del Latte. L’obiettivo era quello di evitare di congestionare il traffico cittadino».
Negli anni duemila è stato preside del liceo scientifico Da Procida. La scuola raggiungerà duemila studenti e per le nuove iscrizioni si procederà per sorteggio. Un record.
«Ciò che prevalse nella crescita del liceo fu il clima di cooperazione interna anche nella scelta di obiettivi strategici da raggiungere. La cultura al centro, come la formazione non retorica. Lavorammo per un rinnovamento tecnologico e digitale. La presenza della politica fu intesa come promozione della cultura. La matematica veniva vissuta anche come momento di aggregazione. La valutazione delle intelligenze avveniva con la valorizzazione e non attraverso penalizzazioni. Gli studenti si sentivano partecipi e protagonisti della scuola, che vivevano con un orgoglioso senso di appartenenza pur non rinunciando alle battaglie che ritenevano importanti per se stessi. Da questo punto di vista dimostrarono sempre di saper scegliere tra una protesta convinta, umana e sociale, e il vagabondaggio dell’iniziativa studentesca. Il fine era sempre la formazione. C’era una severità molto tenue ma perforante».
Cultura e politica appartengono per intero alla sua vita.
«La scuola è stata mio riferimento da quando sono nato, e per un periodo di circa e oltre cinquant’anni. Prima come docente, poi come preside e anche nel ruolo di assessore. La politica è stata impegno, servizio, cultura, passione. Mi ha anche dato delle amarezze, come d’altronde capita un po’ con tutte le cose della vita, ma quel capitolo è stato complessivamente positivo. Ho vissuto entrambe come fatto tecnico e produttivo ma anche con la primaria esigenza di formazione delle coscienze e delle responsabilità. I due momenti sono integrati tanto da rendere difficile una netta separazione. Oggi, dopo un periodo intenso di attività politica, riscopro il filo del mio impegno nella scuola dalle elementari al liceo, dal liceo all’università, fino alla professione docente e di preside. Perché un solo pensiero mi ha guidato: quello della cultura e della scuola, continui e costanti della mia vita, anche in politica. Non si può fare politica senza humanitas. Non si può essere docenti né presidi senza cultura politica nel senso più elevato del termine».
I suoi maestri nella vita.
«Il mio maestro, la mia guida spirituale, è stato Giuseppe Mazzini. Avevo quindici anni quando fui colpito in modo particolare dal suo libro sui doveri dell’uomo che debbono precedere o convivere con la richiesta dei diritti. Giovanni Spadolini, con cui ho avuto l’onore di una collaborazione culturale. Un maestro di storia, politica ed etica. Giuseppe Galasso, amico personale e uomo di eccezionale sensibilità storica. La mia cultura nasce nel mondo del retaggio classico tra latino e greco, come docente e uomo politico».
Da osservatore esterno ma attento, come giudica la politica italiana?
«Spadolini sottolineava con insistenza che non esiste politica senza cultura né cultura senza politica. Bisogna ahimè sottolineare che il livello generale della politica è scaduto a livelli molto deboli. Non ci sono programmazione, visione, entusiasmo, moralità».
Di chi la colpa?
«Tutto ciò è stato determinato, a mio parere, non tanto dai singoli comportamenti politici quanto dal progressivo disfacimento dei partiti che costituivano un momento di elaborazione politica e capacità protettiva delle singole realtà. Sia amministrative che ideologiche. Questo ha prodotto un progressivo rafforzamento dell’uomo solo al comando. Importante è risultata la riforma riguardante l’elezione diretta del sindaco, unica legge elettorale che ha migliorato la stabilità dei governi cittadini e la realizzazione dei processi di crescita indebolendo però il rapporto di cooperazione democratica. La figura del sindaco è stata rafforzata a danno della potenzialità di aiuto e coordinamento dei singoli membri del Consiglio. Certamente da ciò è derivato una riduzione delle potenzialità democratiche di collaborazione. Oggi, anche nel quadro della città di Salerno, si rileva un indebolimento del processo democratico».