di Olga Chieffi
Non c’è festa senza musica, non c’è musica senza festa e l’intera serata di sabato, il centro storico di Salerno, è stato splendidamente omaggiato da quest’arte della quale è risuonato sino a tarda sera. Si è iniziato nel quadriportico di Salerno, ove già dal primo pomeriggio è iniziata la diretta dei tanti social-mediapartners dell’atteso evento “Di Padre in Figlio”, per i 50 anni di carriera del tenore Bruno Venturini, il quale, insieme al figlio Salvatore ha inteso raccogliere un ricordo da quanti hanno avuto un qualche legame con lui, con la sua famiglia, in mezzo secolo di storia. Un motto, una targa, un flute di prosecco ed una superlativa “letterina” inviata da un’eccellenza cilentana il pastry chef Antonio Ventieri, eleganza d’altri tempi e l’immediatezza del contemporaneo per aprire i festeggiamenti. Un salto al teatro Augusteo, per il ritorno della Banda Musicale dell’Aeronautica militare diretta dal M° Pantaleo Leonfranco Cammarano e un passaggio tra gli stucchi dorati della Chiesa di San Giorgio, per applaudire i giovani pianisti del nostro Conservatorio, Davide Cesarano e Francesco Fanelli, ospiti della storica associazione Alessandro Scarlatti, per quindi ritornare alla grande festa musicale di Bruno e Salvatore Venturini. Un filo rosso ha legato questi tre eventi, in primis la musica che è una, senza barriere di genere infatti, “Ci sono due tipi di musica, la buona musica e tutto il resto” era solito dire il leggendario Duke Ellington, uno dei poteri della buona musica è sicuramente quello di ispirare pensieri elevati e buone azioni, quindi la formula “Di Padre in figlio”, tradizioni che passano veramente per famiglie musicali, come quelle dei Venturini, e per il concerto dell’arma azzurra per l’intera famiglia Cammarano, papà Vincenzo, il M° Leo e un’eccellenza del violinismo italiano Daniela, nonché quella dei Maestri, che abbiamo visto a leggìo nell’orchestra Arechi tutta salernitana, schierata alle spalle del nostro tenore, ad esempio i contrabbassisti Ottavio Gaudiano e Marco Cuciniello o i futuri protagonisti della tastiera presentati dal maestro Costantino Catena, poiché oggi il termine Maestro, purtroppo abusato, violentato, mortificato, è quello più vicino al dire Padre. Ma un altro filo rosso ha legato i tre eventi ovvero la “Salernitanità” un orgoglio cittadino quello di poter far parte della grande tradizione musicale cittadina, dalla scuola dei fiati presenti nella banda grigio-azzurra, e anche nell’Orchestra Arechi, al magistero pianistico del Martucci, e al canto che vanta tante eccellenze in città, tra cui “i Venturini”. Il maestro Valeriano Chiaravalle, forte di un’orchestra di ben sessanta elementi, ha presentato i suoi appunti in musica per lo studio di un dialogo che apre la cultura musicale partenopea ad ogni contaminazione, a cominciare con la sigla iniziale, Arioso, una pagina firmata da Piero Piccioni da “In viaggio con papà” riproposto a sigillo del programma in versione rock. Ma “Voglio cantare e si nun canto moro, /E si nun canto me sento murire./Me sento fa’ nu nureco a lu core/ Nisciuno amante me lo po’ sciuglìre”. Citazione dei versi di Libero Bovio, per offrire l’essenza di quell’esplosione passionale del sentire musicale partenopeo. Il concerto che stregato per ben tre ore l’attento e partecipativo uditorio è stato un vero e proprio viaggio intorno alla canzone napoletana e Bruno Venturini, potente tenore, dalla voce fatta di vigoroso miele, che riesce a piegare le frasi, con retorica, sapientemente controllata, si è raccontato cantando il suo sentire, i suoi contrasti, la sua bellezza, la sua libertà, il suo amore, aprendosi ad ogni contaminazione, offerta dagli splendidi arrangiamenti del Maestro Chiaravalle a quattro mani con il pianista Salvatore Mufale, tra cui quella di “Munasterio e Santa Chiara”, con un’ introduzione che ha schizzato perfettamente il senso della distruzione, di quella impotenza, della dispersione fisica e sentimentale del secondo dopoguerra, per poi, passare a quel ritmo di beguine, che fa parte di quel “gioco” tra flamenco, bajon e swing, di quell’epoca che aprì le porte della canzone italiana al jazz. In questa alternanza Bruno-Salvatore abbiamo percepito nel nostro tempo veder coesistere una tale mescolanza di stili, di linguaggi, di norme di vita, quale nessun altro periodo della storia musicale. Vocalità dall’impeto primaverile, quella di Salvatore, gran dominio dinamico del palco per lui e una chicca “Così bella, così sola”, un omaggio a Domenico Modugno, introdotta dal suono evocativo della doppia ancia di Antonio Rufo. Una scaletta cantata inaugurata da Passione, poi Malafemmena, Dicitencello Vuje, tre cavalli di battaglia liricamente cesellati, di raffinata emotività, nascondenti un caldo universo policromo. E ancora duetti con Manuela Villa, ancora ricordi per Di padre in figlio, quello del reuccio, con cui Bruno divideva le cronache. Scaletta monstre in cui le gemme più preziose del nostro canto, dall’ Ottocento ad oggi, le melodie sono state oggetto di un confronto plurilinguista, in cui la canzone è stata liberata da ogni manierismo esecutivo, per ridonarla all’ascoltatore, filologicamente pura, ma con lo sguardo rivolto ad un futuro aperto ad ogni influenza diretta o indiretta, che la naturale evoluzione del linguaggio musicale ha esercitato su questa struttura compositiva. Il percorso, tappa dopo tappa, dal periodo d’oro ottocentesco, che segna il passaggio dalla canzone popolare a quella d’amore di gusto moderno, ha toccato Torna a Surriento, Silenzio Cantatore, Carmela, Reginella, e poi a Napoli anche il silenzio canta, poiché è cantatore, Maria Marì con Adriano Di Maio, che su invito di Pino Strabioli, si è trasformata nella chiusa arboriana di Ohi Marì con Adriano de Maio, e il passaggio alle parole “azzeccose” di Anema e core, con cui ha ricordato Salvo D’Esposito, sotto un moonlight in riva al mare come lo vedeva “Caruso” sul mare di Sorrento. Non è mancato da parte di Salvatore, l’intonazione dell’inno Lotta e Vinci, talismano per la sua Salernitana come “Quando dico che ti amo” di Tony Renis. L’Ave Maria non è mancata poiché la porta della cattedrale era aperta e il pubblico non ha disdegnato di assidersi anche sotto le volte del Duomo. Finale prezioso con la voce di Valentina Stella con il sipario che si è riaperto sulla guerra: Napoli ne ha “passate” due di “nottate”, accomunate da un’unica canzone “’O surdato ‘nnammurato”, evocato emotivamente a fil di voce, come Anna Magnani in “La sciantosa”. Quindi un bis “Chesta sera” di Nino D’Angelo, che si è trasformata in serenata, con voce, secondo una prassi molto diffusa in passato nel sud d’Italia, iniziandoci ad uno dei segreti della canzone napoletana, che non è soltanto nella vocalità morbida nella sua vena melanconica e ornata alla maniera orientale, ma è anche empatia con lo strumento d’accompagnamento, ovvero, stavolta la chitarra di Giampaolo Ferrigno. Finale di prammatica con ‘O sole mio, con la Arechi Symphony orchestra di Danilo Gloriante, Antonio Rufo e Matteo Parisi, sovrastata dal flauto di Antonio Senatore dai preziosismi illuminati e illuminanti tra le righe. Standing ovation e appuntamento, stavolta per tutti, anche per quanti non son riusciti ad entrare, rinnovando un castello di polemiche affatto nuovo (ricordiamo la ressa al concerto di Uto Ughi ad invito proprio nell’atrio del duomo per l’inaugurazione del Salerno Festival dell’Ente Filarmonico per il Mezzogiorno sul finire degli anni ‘80) in piazza della Libertà.