di Olga Chieffi
Quando si suona per il sovrumano piacere di farlo, senza secondi fini, non si vorrebbe mai smettere. “ E’ una splendida città Salerno – così ha esordito il direttore dei Solisti Veneti Giuliano Carella, dopo l’ultima nota del programma ufficiale, al pubblico che richiedeva il bis – e noi desideriamo essere generosi”. Generosissima è stata l’intera formazione fondata da Claudio Scimone che ha concesso ben quattro bis al caloroso pubblico che li ha abbracciati, dopo decenni di assenza da Salerno, protagonisti del secondo appuntamento della rassegna “Benedetta Prima…Vera”, voluta dalla direzione artistica del massimo cittadino. Serata inaugurata dal Tartini della Sonata a quattro in Sol maggiore, in cui si è avuto immediatamente esempio, e nella giusta cornice di quel gruppo che è riuscito ad imporsi a livello internazionale, come pochi ensemble italiani, ed è riuscito a farlo con una propria identità. Affascinante per molti aspetti da dalle istantanee accensioni di colore, a picchi di vitalità, alla ricchezza del suono, sino a quel senso di canto strumentale profondo, che appartiene a tutti i componenti del complesso, un gruppo che sembra respirare insieme tanta è la sintonia. Da Tartini al Respighi delle con la sua danza Italiana d’apertura dal carattere pacato e austero, Jean-Baptiste Basard con le sue Arie di Corte in cui si alternano movimenti dall’andante, al lento, al vivace, la dolce e nostalgica Siciliana di autore ignoto, fino alla passacaglia di Roncalli dal carattere maestoso ed energico che si stempera nello splendido Largo. Carella è riuscito a valorizzare i colori della tavolozza respighiana con una levità che nel cinquecento si sarebbe definita “ariosa” per dar vita atmosfere quasi imparentate a Mahler. La serata ha avuto ospite il solista Lucio Degani interprete della Fantasia su La Traviata di Antonio Bazzini. Cesellato nel suono Lucio, un vibrato romantico, latore di una sensualità trasfigurata del timbro, nel fraseggio ad ampie arcate, in una purezza della sua esecuzione estremamente cantabile, poi fattasi più interiorizzata sino ad esplodere dopo le virtuosità, mai vuote ed esibite, in un passionale a tutta voce “Amami Alfredo”, che ha meritato la standing ovation, comandata dal collega Daniele Gibboni. Finale con il Quartetto in Mi Minore di Giuseppe Verdi. Come si suona il suo Quartetto lo spiega l’autore stesso: “I tre primi tempi non presentano difficoltà di interpretazione, ma l’ultimo sì. Se alla prova voi sentite, termometro infallibile, qualche squarcio un po’ impasticciato, dite pure che, se anche bene eseguito, è male interpretato. Tutto deve sortire, anche nei contrappunti più complicati, netto e chiaro. E questo si ottiene suonando leggerissimamente e molto staccato in modo che si distingua sempre il soggetto, sia dritto che rovesciato”. Giuliano Carella ha rispettato in pieno queste indicazioni a partire dall’Allegro iniziale in cui il vivace dialogo tra gli archi, con il fuoco e la brevità tipica di Verdi, si è adagiato sulla melodia riproposta con vivide variazioni timbriche dalle varie voci strumentali. L’Andantino è risultato ironico e danzante. Saper ascoltare i silenzi e le pause di sospensione che interrompono e movimentano il motivo, che riprende poi maestoso e lento fino a spegnersi sulle corde del contrabbasso è solo dei grandi direttori. Brucianti l’attacco e la chiusura del Prestissimo, incalzato da precisi e velocissimi stacchi ritmici in una moltitudine di variazioni cromatiche, prima dell’ Allegro assai mosso dello Scherzo-Fuga finale aperto dal suono penetrante e leggero dei violini e ripresa con crescente tensione dall’ intera orchestra. Applausi scroscianti e ben quattro bis, quali atto d’amore al pubblico e alla città, a cominciare dal Preludio della Suite “ai tempi di Holberg” op. 40 di Edward Grieg, con il suo fascino espressivo che non si discosta dal sentimentalismo terso e fragrante tipico della personalità artistica proprio dell’autore. Quindi, il Largo Andante in mi maggiore dal concerto D 96 di Giuseppe Tartini, con i suoi versi in calce, “A rivi a fonti a fiumi correte amare lagrime, sin tanto che consumi l’acerbo mio doloro”. Una struggente melodia affidata ancora una volta al violino di Lucio Degani, che il direttore ha voluto elevare per lo stato di guerra in cui viviamo e per la Pace nel mondo. Si è continuato con l’allegro dal Concerto per archi RV 127 di Antonio Vivaldi, il loro autore d’elezione, evocante quel filo conduttore che percorre la sua intera produzione strumentale, caratterizzata da un’ansia onnicomprensiva, da un demone bruciante che spinge il musicista ad una continua sperimentazione. Finale con l’Aria dalla Suite n° 3 in re maggiore BWV 1068 di Johann Sebastian Bach, la “sigla” de’ I Solisti Veneti, omaggio all’indimenticato Claudio Scimone.