Nabucco, come Daniel Oren vuole - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Nabucco, come Daniel Oren vuole

Nabucco, come Daniel Oren vuole

Olga Chieffi

Dire Nabucco è dire Daniel Oren. E’ con questo titolo che la stagione lirica del teatro Verdi di Salerno si è magistralmente conclusa. Daniel Oren è troppo musicista per non lanciare un ponte di intenzione e interpretazione, tra il suo popolo in esilio e schiavitù, quella bomba ad alto potenziale esplosa in quel famoso 9 marzo del 1842 e i tempi di guerra tinti fortemente di “nero” attuali. I tempi di Oren sono stretti, contrastati, come Verdi li voleva, la dinamica vigorosa, sia pure con una nobile e sapiente preoccupazione di temperarne la rozzezza (i famosi duecento e più colpi di piatti della Sinfonia d’apertura). L’esplosione di “Arpa d’or dei fatici vati” è potente, quanto piano è il resto. Ma è soprattutto nella parte del protagonista Nabucco, affidato ad un campione di questa corda Amartuvshin Enkhabat, che Daniel Oren si è adoperato a sottolineare, giustamente, l’aspetto dolente e smarrito che fa del guerriero assiro, quasi l’esempio clinico di un colpito da ictus cerebrale. Qui sì, c’è davvero bisogno di amorosa ripulitura dalle truculenze che alla parte avevano conferito non già intenzioni ideologiche e patriottiche, bensì ambiziose gigionerie baritonali. Oren ha imbeccato la parte al baritono mongolo, occhi negli occhi, respirando e qualche volta cantando pure con lui, il quale, comprendendo e affidandosi al maestro è riuscito nella sua interpretazione rastremata e dolente, quasi ad evocare quell’arco ideale che collega il pianto di Nabucco a quello di Rigoletto. Daniel Oren, non ha fatto certo l’errore di temperare la violenza della parte di Abigaille, una Anna Pirozzi completamente a proprio agio nel ruolo. D’altra parte il soprano napoletano ha per natura il dono di questa parte, e sebbene abbia voce limpida e dalla facile emissione, ha centrato quel cantare iracondo, superbo e rissoso che Verdi ha attribuito al personaggio, dando la prima grandissima prova delle sue possibilità di caratterizzazione vocale, per poi, attraverso un sapiente uso di fraseggi articolati e di piani attentamente calibrati, svelarne le pieghe più intime e oscure di figura tormentata, la quale, pur manifestando una natura crudele, cela dietro la sua durezza le ferite di una vita segnata da continue esclusioni e rifiuti. Accanto a questi due campioni, il cast ha allineato più che decorosi personaggi di sfondo, il soprano Miriam Artiaco nel ruolo di Anna, il tenore Galeano Salas in quello di Ismaele, che con grande facilità e abilità, ha saputo caratterizzare il suo personaggio, ovvero quel tipo di tenore pieno di agilità, che si svilupperà e maturerà nel corso delle opere del giovane Verdi. lo splendido basso Evgeny Stavinsky, in quello di Zaccaria, distintosi per una vocalità di timbro nobile e rotondo, accompagnata da una teatralità scolpita e sapiente ma affatto ieratica, al contrario si presenta sobria e attentamente cesellata, l’ottimo mezzosoprano Alisa Kolosova, nel ruolo di Fenena, che ha schizzato quale determinata e coraggiosa, conquistando l’applauso al termine della sua aria “Oh dischiuso è il firmamento” e, ancora, il tenore di casa Francesco Pittari in quello di Abdallo e Carlo Striuli quale Gran Sacerdote di Belo. Coro ben istruito dal Maestro Francesco Aliberti, che ai saluti della “prima” ha meritato l’abbraccio di Oren, soprattutto nelle parti drammatiche in cui partecipa continuamente all’azione, più ancora che nella stasi lirica del “Va’ pensiero”, trionfalmente bissata. Infatti, la coralità fluisce nel primo atto e in parte anche nel secondo e nel terzo, come una fiumana e impone alla musica norma e forma: poco c’è posto per i problemi di aria e recitativo, là, dove l’espressione collettiva straripa e invade ogni angolo dell’opera e la simulazione teatrale d’una liturgia recupera i valori antichi della musica sacra, iniettandogli per di più il pungolo della tensione drammatica. Orchestra tra luci e ombre dove tra i legni l’ha vinta l’ ottavino di Vincenzo Scannapieco, per suono e pulizia, pari al primo corno, Hugh Sisley, alla intera fila dei celli e al piattista Rosario Barbarulo, alle prese con una parte densa di interventi. Niente cimbasso in buca, ma la tuba e banda di palcoscenico con quartetto di trombe non all’altezza del prestigioso contesto. La regia di Kartaloff è risultata più che classica, senza alcun proposito di novità bislacche e senza perdite di tempo, in pari coi tagli optati dal Direttore, per tra una elevata e discesa di fondali con simboli appartenenti ai due popoli in lotta, costruita sulle scene e in particolare i costumi firmati da Alfredo Troisi. Applausi e rose per tutti e appuntamento nel 2026 con il doppio appuntamento augurale con i Filarmonici del nostro massimo e Maria Agresta.