Oggi a mezzogiorno, il Duomo di Ravello ospiterà l’esecuzione dello Stabat Mater di GiovanBattista affidato a Daniela Cappiello e Cecilia Molinari, sostenute dall’Orchestra Filarmonica Salernitana, diretta da Sergio Alapont
di Marina Pellegrino
“Per comporre musiche sacre ispirate alla sofferenza ed alla morte (siano mottetti penitenziali o responsi della Settimana Santa o passioni o improperia o qualsivoglia altro suggetto similare), doverebbe star avvertito il compositore di non fare solo musica buia e arabbiata in falsa larghezza, forzando la penna oltr’il naturale, perché per i sentimenti di dolore o di preghiera penitente o di pianto le oportune armonie et i sani contrapunti non dovrebbon perdere mai la luce, la vaghezza e l’affectione (come dev’essere per i divoti che anche ne’ patimenti giamai scordano la speranza) avendo cura particularissima degli accidenti e delle pause (che della musica sono il colore e ’l respiro): doverebbe insomma la composizione riescir naturale e profonda”. Con queste parole il fiorentino Giovanni Francesco Beccatelli, teorico, maestro di cappella e organista nella cattedrale di Prato, illustrava la sua concezione di musica per le “tenebre”. Oggi, nello splendore del mezzogiorno della nostra costiera, il Duomo di Ravello ospiterà l’esecuzione dello “Stabat Mater” di GiovanBattista Pergolesi. L’opera, per soli e archi è stata affidata al soprano sorrentino Daniela Cappiello e al giovanissimo mezzosoprano Cecilia Molinari, sostenute dall’Orchestra Filarmonica Salernitana, diretta da Sergio Alapont. Lo Stabat Mater viene da sempre considerato, il testamento spirituale di Pergolesi. In questa opera emerge la bellezza pura, malinconica ma non drammatica, che risplende in tutta la sequenza, quasi come se Pergolesi vi si fosse rispecchiato ed avesse ritrovato gli accenti più veri del suo dolore in quel canto, sincero e profondamente sentito. È una musica non pretenziosa, si direbbe umile, dove sono eliminati ogni sorta di virtuosismo esteriore fine a sé stesso ed ogni sorta di artificio superfluo e ridondante. A distanza di ben 282 anni dalla composizione, le innovazioni trovano una unitaria compostezza in questa pagina di Pergolesi: ciò avviene da un punto di vista stilistico grazie all’approdo ad una prospettiva più squisitamente sentimentale, la celebrata Teoria degli affetti, incentrata sul pathos del testo sacro e, da un punto di vista tecnico-compositivo, grazie all’alleggerimento degli austeri toni presenti nella versione scarlattiana. Tutto questo non implica un completo abbandono delle forme tipiche della tradizione sacra – presente per esempio nei richiami arcaicizzanti di alcuni passaggi del “Fac, ut ardeat cor meum” – ma esse si compendiano in un perfetto bilanciamento con i drammatici trilli del “Cujus animam gementem” o nell’interpretazione dei toni dell’anima con il “Fac me vere tecum flere”. Tutto sorregge il canto ed è funzionale al risplendere delle due voci femminili, e già dall’introduzione si delinea un clima commovente e malinconico, la musica prende vita forma e ha il compito di far percepire la terra, il terreno, come un principio di assorbimento e, insieme di nascita: abbassando, si seppellisce e si semina, e, nel medesimo tempo, si dà la morte per poi ridare nuova luce, nuova vita.