Successo per il concerto della Fondazione Gatto in un teatro Verdi non completamente fruibile che non ha permesso a numerose persone di assistere allo spettacolo
Di OLGA CHIEFFI
Pubblico inferocito, sabato sera, fuori del teatro Verdi, per non essere riuscito a conquistare un posto per “essere” al concerto di Moreno Veloso e Pedro Sa, i quali hanno proposto e musicato alcune pagine di Alfonso Gatto, nella loro lingua. La Fondazione Alfonso Gatto, presieduta da Filippo Trotta, non ha infatti “aperto” l’intero massimo cittadino al pubblico con i suoi 650 posti, ma unicamente la platea e il primo ordine di palchi, prenotabili telefonicamente allo scopo di stilare un elenco di invitati da poi far entrare per appello uno per volta con attesa nel foyeur. Organizzazione, quindi, ampiamente da rivedere per i futuri eventi in spazi carismatici e, certamente, non facili da gestire e molto ambìti dal pubblico, in particolare, quando lo spettacolo è gratuito. Tra scene da delirio e imprecazioni esterne è cominciato lo spettacolo e nel migliore dei modi, rivelando il sentire di Guido Maria Grillo, un “Resistente” cantautore salernitano, di raffinata eleganza e musicalità, che ha esordito con “25 aprile”, lanciando il suo romantico Urklang sulle parole “Liberate l’Italia!”. Il verso di Gatto è abitato dalla musica e Grillo ne ha colto in pieno l’essenza. Per il nostro chitarrista e cantante approcciare la parola piena del poeta ha significato palesare ciò che di recondito risiede nella sua essenza, svelarne l’essere; in questo senso, senza alcun intellettualismo e anzi con una naturalezza sconcertante. L’intervento di Grillo si è concluso con l’esecuzione di un suo brano originale “Tutto quello che un figlio”, che rientra in una costellazione variegata di musica e poesia. La ribalta è stata quindi ceduta all’ex 24 Grana Francesco Di Bella, che ha presentato qualche brano del suo progetto da solista “Nuova Gianturco”, una riflessione sulle periferie del mondo, attraverso Accireme, Aziz, Kevlar, Aziz, per chiudere con Tre Nummarielle, e l’idea che queste canzoni possano essere nate, a nostro parere molto forzatamente, a vicolo delle Galesse, con qualche consiglio di Don Alfonso. Archiviate le esibizioni di “accoglienza”, in scena il duo brasiliano Parque 72, con Pedro Sa e Moreno Veloso, basso, chitarra e tamburello, che grazie alle traduzioni di Giorgio Sica e agli offici del Dipartimento di Studi Umanistici del nostro ateneo, sono riusciti a musicare e a proporre qui a Salerno alcune liriche di Alfonso Gatto, da “Ogni uomo è stato un bambino” a “Un consiglio”, “All’ alba”, “Carri d’autunno”. Il sound brasiliano è un magico equilibrio tra abbandono sensuale, riflessione e consapevolezza della fragilità di questo genere, avvolto da una serenità velata, da una saudade racchiudente la doppia matrice del fatalismo iberico e africano, un “legato” che va a sposare il garbato suono della lingua portoghese. Voce dolce e intima quella di Moreno, figlio del dio maggiore Caetano, un cognome difficile da portare, melismi arabeggianti (il Medioriente, specie libanese, è molto presente nella foresta di culture del Brasile, come confermano i romanzi di Amado), si con quella straripante energia del compare. Se i brani originali del duo come la Ninna nanna Coisa Boa, qualche samba e la straordinaria magneticità dei ritmi latini, risecono a far passare gioia e malinconia, spruzzate da scariche di sperimentazione e di ironia a supporto di una voce tenorile chiara perfettamente intonata, capace di infinite sfumature e abilissima nell’anticipare o ritardare infinitesimalmente l’entrata nella battuta ritmica, con il verso di Alfonso Gatto è diverso. “La schiavitù ha seminato nelle nostre vaste solitudini una grande dolcezza – dice della musica brasiliana Caetano Veloso – il suo contatto è stata la prima forma che la natura vergine del paese ha ricevuto. Gli ha trasfuso la sua anima infantile, le sue tristezze senza farle pesare, le sue lacrime senza amarezza, il suo silenzio senza concentrazione, la sua allegria senza causa, la sua felicità senza futuro, è il sospiro indefinibile che alla luce della luna esalano le nostre notti”. Musica che ha queste ragioni non lega con la parola piena di Alfonso Gatto, del quale ci è stata regalata la voce nella declamazione di “A mio padre”. Applausi e bis per il progetto che aiuterà i terremotati di Amatrice e pubblicherà nella traduzione portoghese, un buon numero di poesie di Alfonso Gatto sulla rivista brasiliana Mosaico.