Alberto Cuomo
La fine di agosto è stata movimentata, in campo calcistico, dalla telenovela sul trasferimento del fantasista argentino Paulo Dybala alla squadra dell’Al-Qasdiah che gioca nel campionato maggiore dell’Arabia Saudita. La squadra della città di Kobhar aveva offerto a Dybala ben 75 milioni di euro per tre stagioni, e il calciatore, benché perplesso sul dover cambiare ambiente, sembrava stesse per accettare, tanto da salutare i colleghi del proprio club, dopo aver svuotato il suo armadietto a Trigoria, il centro sportivo della Roma. Secondo le cronache, a convincere Dybala di rimanere in Italia sarebbe stato l’affetto dei tifosi che gli avrebbero chiesto di continuare a giocare per i colori romanisti. Pare che anche la moglie, la modella e cantante argentina, Oriana Sabatini, unitamente alla madre di Paulo, Alicia, lo avrebbero convinto a rifiutare l’offerta araba, non contente di venir via dalla capitale. Ha avuto altresì rilievo nella decisione la convocazione del nostro nella nazionale argentina e il desiderio di esibirsi sul palcoscenico delle coppe europee. Comunque sia, Dybala ha scelto il cuore invece che il denaro. Una scelta che dovrebbe essere immediata, senza molti pensieri, tanto più quando a fare le danarose offerte sono i paesi arabi, ricchissimi certo, ma con innumerevoli contraddizioni sociali. Così ad esempio, come può un occidentale sopportare di vivere in un paese in cui sono ancora presenti, come è in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi, le punizioni corporali, ovvero la fustigazione, il taglio della mano destra per i ladri cui si aggiunge quello del piede sinistro per le rapine sulle strade, o la condanna ad essere paralizzati per i creditori non solvibili. E non solo. I diritti delle donne sono del tutto calpestati. Per esempio, sebbene alfabetizzate non possono andare al cinema senza essere accompagnate da un uomo, non possono guidare e devono indossare obbligatoriamente il velo in pubblico. Una giovane donna è stata data alle fiamme per avere aperto un account su tiktok. L’omosessualità è negata. Nel 2023, secondo Amnesty le condanne a morte sono aumentate del 15 per cento. Sui migranti che tentano di superare il confine è consentito sparare e la paga di un operaio si aggira sui 130 euro al mese. Viene da chiedere come possono i calciatori cresciuti nelle squadre europee come Neymar, Mitrovic, Milinkovic-Savic, Kalidou Koulibaly, Firmino, Kessiè, Benzema, Ronaldo, per non dire di Mancini, oggi allenatore della nazionale saudita, accettare di vivere in un paese ricco certo, ma in oltraggio ai valori occidentali della democrazia, della libertà di opinione, di parola e della parità di genere. Peggio ancora negli Emirati sorti dalle ruberie dei pirati noti ai paesi europei come “pirates of coast, i quali hanno razziato le navi sino alla fine dell’Ottocento sì da potersi dire che l’istinto alla prevaricazione e alla rapina persista nel paese. Secondo il apporto Mondiale 2020 di Amnesty International e il Rapporto 2019 del Human Rights Watch, infatti, molti lavoratori, in gran parte migranti, hanno retribuzioni tanto misere da far intendere il loro lavoro come un vero e proprio lavoro forzato venendo loro sequestrato il passaporto onde non farli andare via in quanto, secondo il sistema kafala, legati al datore di lavoro che, se lasciato con la fuga, ne richiede la punizione con il carcere. Oltretutto gli Emirati partecipano alla coalizione con i sauditi che ha operato, dal 2015, nello Yemen, con attacchi illegali, a detta delle due organizzazioni umanitarie, e crimini di guerra. Lo stato degli Emirati Arabi Uniti è costituito da sette emirati costituitisi in un’unica nazione a carattere confederale nel 1971. Ciascun Emirato è retto da una monarchia ereditaria i cui rappresentanti fanno parte del Consiglio dei Sovrani presieduto dallo sceicco di Abu Dhabi, il cui vice è quello di Dubai. Il collante che tiene uniti gli sceiccati, in un territorio quasi invivibile per il caldo, è la ricchezza derivante dall’estrazione petrolifera, i cui proventi hanno indotto la costituzione di istituti di credito i quali hanno raccolto risorse economiche provenienti da molte parti del mondo divenendo, per la loro osservanza della segretezza bancaria, malgrado l’adesione all’Agenzia di Controllo internazionale della trasparenza delle fonti economiche, la Financial Action Task Force, vere e proprie lavanderie del denaro sporco delle mafie mondiali, russe, cinesi, americane, giapponesi, africane, colombiane, italiane, le cui strade, provenienti dai traffici d’armi, di droga e di esseri umani, conducono, negli emirati, a Dubai e Abu Dhabi. La previsione del disseccamento dei pozzi ha indotto gli emirati a ricercare altre fonti di guadagno, rinvenibili nell’intervento immobiliare e nel turismo milionario. Secondo Jim Krane, ricercatore presso la Rice University di Houston, nel 1975 il petrolio forniva i due terzi del Pil di Dubai, mentre già nel 2010 l’apporto dei giacimenti si è quasi azzerato a fronte del turismo sabbia e mare che vale un quinto della ricchezza prodotta. Sebbene attrattori turistici, per i loro ricchi centri commerciali e i fantastici alberghi, le città emiratine sono invivibili, destinate alla transitorietà dei soggiorni tanto è vero che le abitazioni di proprietà non raggiungono il 30% del patrimonio immobiliare e l’acquisto serve sostanzialmente a costituire società fittizie onde evadere le tasse nei propri paesi. Singolarmente anche negli emirati tutti gli allenatori di calcio sono stranieri, molti brasiliani o argentini e due italiani, Zenga e Viviani, con Cannavaro che vi possiede immobili, cui si aggiunge l’ex della Salernitana Paulo Sousa. Naturalmente sono presenti nelle squadre emiratine molti calciatori provenienti da campionati occidentali, tra essi Vucinic, Traoré, Belfodil, non tutti da “cimitero degli elefanti” ma anche molti giovani brillanti, in buona parte olandesi. Né si può dire che il denaro arabo abbia inquinato il calcio che non appare più essere uno sport, dal momento lo stesso denaro, come il petrolio, ha inquinato il mondo intero.