Un talento musicale che cerca una propria via verso nuove concezioni d’espressione, non può non lasciarsi sedurre da un genere di musica che uno dei suoi più grandi interpreti, Gene Krupa (drums) definisce “…eccola davanti a voi in ogni suo aspetto: mettetela come volete. Una bellezza che è insieme stracciona e cordiale, sfrontata e perfida, e che ha senza dubbio il suo fascino”. E’ il vento del jazz che accompagnò l’occupazione americana a Salerno, incantando un giovanissimo Enrico Parrilli, seduto ai piedi del batterista di un combo di strumentisti della V Armata del Generale Clark, che si esibiva al Casinò Sociale. Da lì, lo studio del pianoforte, degli “a-solo” dei più importanti musicisti di questo genere, attraverso i soli V-Disk, l’incontro e la felicissima collaborazione co il Dr.Achille Guglielmi, animatore e catalizzatore della scena jazzistica salernitana di quegli anni. In seguito, la conquista di ben due edizioni della leggendaria “Coppa Vaccaro”, istituita dal Circolo Napoletano del Jazz, nel 1959 e l’anno successivo, a spese dell’amico sassofonista Mario Schiano, con l’Accademic quintet, composto da Enrico Parrilli al vibrafono, Achille Guglielmi al pianoforte, Franco Serino alla batteria, Vittorio Liguori al violoncello, ’incontro alla N.A.T.O. con Dave Brubeck, a Montreaux con Oscar Peterson e il concerto a Salerno, al fianco di Romano Mussolini e Tony Scott, un’intera vita dedicata alla musica, durante la quale Enrico ha saputo procedere impavido, fiducioso delle sue capacità di irresistibile comunicatore. Enrico Parrilli, nella giornata del 9 ci ha lasciato: la sua arte risiede tutta nel suo sedersi al pianoforte e cercare sempre di superarsi, unico modo di progredire in musica, ponendo al servizio di se stesso e del pubblico la sua generosa creatività, unita a sobrietà, eleganza e infinito swing. Il repertorio era vasto, dalla immersione nella swing craze, che si allargava sino al Be-bop, senza tralasciare il nero del song italiano musicista a tutto tondo appartenente ad un genere, espressione che meglio ha saputo catturare lo spirito, le inquietitudini ma anche le epifanie del nostro mondo, dall’inarrestabile dinamismo, in quella lettura particolare che è quella del livello “intramusicale”, in cui i musicisti dialogano tra di loro sulla base di sensibilità e competenze condivise generanti quello scambio comunicativo e sociale complesso, in cui l’Uomo mette in gioco le proprie idee, unitamente a quelle dell’ascoltatore attraverso un costante signyfin(g), ovvero appropriazione, rielaborazione e restituzione commentata – non di rado in forma di rovesciamento risignificante – di un materiale appartenente al proprio o ad un altro universo culturale. Suo il modo particolare d’inserirsi al centro della sua musica, creando un suo linguaggio musicale. Nella sua terminologia musicale e verbale egli pensava e sentiva; provava ed eseguiva; orchestrava e improvvisava. Tali erano i mezzi. I fini erano quelli dell’arte: l’espressione del particolare dell’universale, dello specifico e dell’indiretto, dell’unico e del molteplice, del definibile e dell’ambiguo. Nel suo procedere nel tempo, Enrico è stato sempre sorretto da una indiscussa, incredibile vitalità – questo nesso sanguigno e vibrante tra epoche e stili succedentisi – che costituisce la fondamentale caratteristica di un po’ tutte le formazioni del nostro pianista, dai G-Men, alla 52°Strada, trii, quartetti, Big Band (ricordiamo l’Happy Jazz Band con un giovanissimo Antonello Mercurio alle percussioni, il figlio Ettore alla tromba) la strambata verso la canzone italiana in qualità di pianista di Bruno Venturini e Peppino Di Capri. Il jazz è la musica dell’istante, in continuo movimento, iridescente ed Enrico ha saputo immedesimarsi nella sua essenza. Chiudiamo con il conforto della parola di un caposcuola. Quando la musica di Count Basie raggiunse l’apice del successo, dopo il 1950, Lester Young – il sax tenore, il solista più importante della vecchia orchestra di Basie, colui che poniamo all’inizio del jazz contemporaneo – fu invitato a suonare con un gruppo di musicisti che un tempo avevano fatto parte di quell’orchestra, per far rivivere in un album lo stile del decennio 1930-1940 declinò l’invito. “…Non posso farlo – disse Lester – non suono più così. Suono in un altro modo, vivo in un altro modo. Ora è più tardi. Questo avveniva allora. Noi ci modifichiamo, ci muoviamo, guardiamo Oltre…”.
Olga Chieffi