Domenica sera, alle ore 18,30, il sipario del teatro Verdi si leverà per la prima del secondo titolo in cartellone della stagione lirica, Manon Lescaut di Giacomo Puccini, la cui regia è stata firmata da Renzo Giacchieri, e affidata alla direzione di Roberto Paternostro, che sarà alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana, mentre il coro si avvarrà della bacchetta di Francesco Aliberti.
Ogni grande artista, prima o poi, produce un’opera ove par quasi che riveli al pubblico la propria consapevolezza di essere uscito, col primo capolavoro, dall’età degli esperimenti. Con Manon Lescaut, il genio di Puccini esplose: l’invenzione è a getto continuo, l’ispirazione vi domina, né risulta percepibile all’ascolto, l’accurato calcolo formale che solo lo studio della partitura può rendere palese. Un calcolo che giunge sino al dettaglio e garantisce all’opera il suo enorme impatto emotivo. Si direbbe che esista un certo squilibrio nelle proporzioni dei quattro atti, piuttosto lunghi i primi due in confronto con gli ultimi. Ma proprio di ciò si è valso Puccini per dare al dramma maggiore risalto, sfruttando l’apparente sproporzione tra i primi e gli ultimi due atti. Infatti, in apertura prevale la pittura dell’ambiente settecentesco, sentito con pathos romantico, mentre in chiusura è espresso il senso tragico dell’avventura dei due amanti. Puccini rivela già quel gusto architettonico che saprà mettere a profitto, con tanto sapiente equilibrio, nelle opere successive. Per questo egli ha voluto dare consistenza musicale alle scene iniziali, penetrandole di un’affascinante atmosfera. L’intuizione spaziale e dinamica dell’azione è concentrata in un semplice disegno melodico che, nel suo alterno moto ascendente e discendente, riesce a coordinare suggestivamente toni diversi – comici, galanti e sentimentali – e che, continuamente ripreso e variamente atteggiato, costituisce, si può dire, il centro di gravitazione dell’intera opera. Il disegno è, infatti, ripreso perfino nell’ultimo atto, come ultima e disperata risonanza di una vita, di un mondo, ormai, definitivamente lontano e irraggiungibile. Il fatto che Puccini vedesse una ragione strutturale nel divario di proporzioni tra i primi e gli ultimi due atti, è attestato dalla presenza dell’intermezzo tra il secondo e il terzo atto. Questa pagina strumentale rappresenta senza dubbio una risorsa geniale: inserita a metà dell’opera, con quel suo lirismo caldo e fremente, essa segna un momento decisivo dell’azione e avvia al suo culmine la linea del dramma. Prevalgono, qui, disegni di terzine che acuiscono l’atmosfera emotiva e annunciano lo svolgimento degli ultimi due atti, l’intensità di un crescendo drammatico non già determinato da frequenza di situazioni sceniche, ma dallo stesso incalzare, dall’esacerbarsi disperato della passione dei due amanti. Che presa isolatamente, la figura di Manon, a cui darà voce Elisabetta Matos, possa rivelare dei contorni piuttosto indecisi, credo non si debba negare. Ma si tratta di un personaggio che ha un suo complemento necessario: Des Grieux, che verrà interpretato da Francesco Medda. Puccini ha sentito, infatti, nell’amore di Des Grieux, il motivo più umano e patetico di tutta la vicenda; vicino a Des Grieux, Manon si purifica di quella fatua civetteria per diventare donna, una creatura umana che ama e soffre. La prima parte del secondo atto si svolge tutta su di un piano di elegante e graziosa galanteria, con qualche sfumatura un po’ dolciastra; ma basta che sulla scena appaia Des Grieux, perché la musica acquisti subito un tono fervido e intenso, fino a inflessioni d’una sorprendente efficacia, le quali, poi, torneranno nelle splendide pagine dell’intermezzo. Accanto ai personaggi principali ritroveremo Ionut Pascu nei panni di Lescaut, Carlo Striuli in quelli del vecchio e ricco Geronte, Domenico Menini, sarà invece il giovane Edmondo, Francesco Pittari, invece eleverà l’aria del lampionaio Nella scelta della vicenda di Manon e des Grieux influì, forse, l’ammirazione per la partitura in cui giganteggia un altro amore destinato alla sconfitta: quello fra Tristan e Isolde; un’ammirazione testimoniata anche dalla tavolozza armonica impiegata e dalla citazione quasi letterale del famoso Tristanakkord nel secondo atto, mentre ancora si sta ballando il minuetto. Queste battute s’insinuano come un cuneo all’interno della scena settecentesca per annunciare l’imminente arrivo di Des Grieux e, con esso, il momento in cui un amore disperato e sensuale travolgerà i due giovani. L’appello delle prostitute al terzo atto ha il valore di una protesta, con una forte componente polemica di massa. Fa pensare all’opera russa, anche perché lo sviluppo del concertato si muove sopra un breve tema lamentoso, in minore e modale, che sfocia in un altro breve inciso ritmico di stampo beethoveniano, sul quale si afferma la tonalità di mi bemolle minore dalle luminose rispondenze. Il motivo in due corpi, anche armonicamente separati, gira e riappare tra le fila del discorso musicale, e lo sentiamo intero verso la fine in bocca ai due amanti, le cui voci, del resto, spiccano sulle altre. Il flusso delle parti, mosso con grande abilità, si collega si grandi concertati verdiani e dà vita ad un racconto di dolori che sembra non debba finire più. Nell’invocazione di Des Grieux la voce sale così disperata e parlante nell’urlo come di chi si mette le mani nei capelli. La stessa disperazione, derelitta, che investe i due nell’ultimo atto. Gli amanti pucciniani continuano ad avanzare nella sabbia del deserto, fino all’ultimo, cercando un’impossibile salvezza, perché l’unica certezza è la vita. Sono questi i valori disperati e sensuali dell’inquieta fin de siècle: la sensibilità moderna comincia qui, dove il cielo scompare, qui dove una donna esala l’ultimo respiro sussurrando “Le mie colpe…travolgerà l’oblio, ma l’amor mio.. non muore….”.
Olga Chieffi