Peppe Rinaldi
Per fortuna che il mondo ha partorito la civiltà romana che, con le sue formidabili locuzioni e i suoi poderosi brocardi in latino, ci permette di sintetizzare in poche parole concetti altrimenti troppo complessi. Ad esempio, questo, sebbene non così antico: “Simul stabunt simul cadent”, a dire che, quando viene meno una delle due «cose» tenute insieme, ecco che pure l’altra ne segue il destino. Come due birilli legati da una cordicella, se uno dei due barcolla e cade si porta dietro l’altro, dovrebbe essere chiaro.
La domanda, quindi, sarà: questo principio giuridico-politico è valso pure per la parabola in corso della famiglia Alfieri, gruppo che a vario titolo ha calcato la scena per almeno un paio di decenni della vita politica, istituzionale ed economica del Cilento, salvo poi rovinare progressivamente a causa del non inatteso intervento della magistratura sulla sua figura più esposta, cioè l’ex super sindaco Franco? Saltando la circoscritta faccenda della sorella imprenditrice, Elvira, titolare della “Alfieri impianti”, pietra dello scandalo nell’affaire “Dervit spa” per via di presunte tangenti e turbative varie di incanti e appalti vari, ancora di là da una definizione giudiziaria certa essendo da poco stata rimessa in libertà dopo il trauma dell’arresto congiunto col fratello, c’è un’altra notizia finora passata in cavalleria, come si dice: Lucio Alfieri, il banchiere di famiglia, anello di congiunzione di diversi mondi, non è più membro del Cda di Iccrea, l’associazione delle banche di credito cooperativo. Questo giornale di questo «dettaglio» del vero potere degli Alfieri s’è occupato in più riprese, anche durante i bei tempi andati, cioè quando dalle procure della repubblica giungevano tenerezze in varie forme all’indirizzo di Alfieri, finché un giorno è apparso un nuovo pubblico ministero che le carezze le ha sostituite con un paio di cazzotti e un dito nell’occhio, la storia è nota. Nessuna infallibilità, certo, ma questo vale per tutti e per tutto. Si vedrà.
Le ipotesi dietro le dimissioni
La notizia delle dimissioni da Iccrea è del 14 aprile scorso, sono diventate però effettive a partire dal 31 marzo precedente e sarebbero avvenute “per motivi personali”, come si legge nella pagina ufficiale della nota associazione di banchieri. Lucio Alfieri aveva scalato i vari gradini dell’associazione bancaria dopo essere stato anche presidente delle Bcc della Campania (prese il posto dello storico presidente Silvio Petrone), poi sostituito dal nuovo Manzo, di Napoli. Lasciata quella carica continuava la salita, entrando così nel vertice di Iccrea, questo fino al 31 marzo scorso. Ovvio che qualcosa sia successa. Quali potrebbero essere questi “motivi personali” (augurandoci, sinceramente, che non lo siano nel senso di guai privati in altre sfere) alla base dell’abbandono lo sanno soltanto Lucio Alfieri, il fratello Franco e il Padreterno: qui non resta che immaginare, supporre, riflettere e anche congetturare, del resto non uscirebbe – e infatti non esce – alcunché dalla bocca dei diretti interessati, cosa del tutto comprensibile visto il momento tragico vissuto da un’intera famiglia che, ancora oggi, vede il proprio leader tramortito da una detenzione che, benché «dorata» in località amena, comincerà a farsi pesante, oltre che aggravata da una quasi certa evaporazione di chissà quanti amici, conoscenti o classici questuanti. Ma c’è chi sta peggio, in galera e non a casa, purtroppo il mondo così gira. Chiaro che a tutto c’è una spiegazione, poi. Ce ne sarà una anche per questa dimissione dall’incarico di governo e indirizzo della cooperazione imprenditoriale in ambito bancario e finanziario? C’è chi si spinge in avanti e sostiene che Lucio Alfieri sia stato costretto a lasciare per via della macchia d’olio giudiziario rovesciata in terra dal fratello e che, com’è ovvio, se macchia d’olio è non può che espandersi: meglio provare a fermarla prima, asciugarla, almeno tentarci. Questa potrebbe essere un’interpretazione sostenibile anche perché pare essersi incardinata sui binari giusti l’attenzione della procura di Napoli su alcune operazioni immobiliari (che necessitano di finanziamenti, risorse, fondi, insomma di soldi) compiute in territorio salernitano nei già citati anni «dei bei tempi andati», quando le indagini sul boss del Pd a sud di Salerno proliferavano perché proprio non potevano non farlo ma, così come nascevano, altrettanto frequentemente si ammosciavano e poi morivano, ne abbiamo elencate diverse in tempi non sospetti, diciamo così. Eccolo spiegato il rimando partenopeo. Ora da Napoli, tra bracci di ferro fra gente comunque «vicina di stanza», prescrizioni maturate o maturande e interpretazioni varie di fatti occorsi nell’ultimo decennio, potrebbero giungere elementi nuovi che arricchirebbero un quadro di suo già molto «impressionistico». Sempre che la cosa non spiri nelle stanze romane, dove lo stesso Alfieri pure annovera(va) amicizie togate di considerevole peso. Vedremo.
Il bubbone dell’Unione dei Comuni
L’altra ipotesi sul tavolo è che Lucio Alfieri potrebbe aver avuto rogne con l’apparato Iccrea (che prima dell’arresto del fratello Franco non aveva nulla da obiettare, anche questo è molto «tipico») per via di una sorta di conflitto di interessi derivante dalla delega che egli ricopriva in seno a Iccrea, quella di responsabile dell’area «sconfinamento fidi» dell’intero circuito del credito cooperativo. In parole povere, Lucio Alfieri sovrintendeva a che le banche affiliate tenessero in ordine il meccanismo di concessione degli affidamenti riconosciuti ai clienti, un punto vitale per qualsiasi istituto di credito: ora, se a un certo punto dovesse essere emerso che proprio lo stesso Alfieri (Lucio) abbia goduto di finanziamenti eccessivi o abbia a se stesso indirizzato fondi extra-regolamentari grazie alla «proprietà» dell’oggi “Banca Magna Grecia” (ex Bcc dei Comuni cilentani), è lecito immaginare che proprio in questo ci sia la spiegazione dell’addio. Ricordiamo che Lucio Alfieri risulta anche socio di imprese edili (la “A&M” e la “M&A”) segnalatesi nella intricatissima faccenda dell’acquisto da parte del Comune di Agropoli del Castello aragonese, del centro ricettivo ad esso prossimo, della società pubblica Stu (trasformazione urbana) e di altro, durante la stessa amministrazione del fratello. Da un calcolo fatto dalla polizia giudiziaria che operava, seppur vanamente, sul caso fino a qualche tempo fa, sembrerebbe che quelle due sole società abbiano ottenuto crediti per circa 40 milioni di euro. I due sodalizi sono composti da figure e incroci intrafamiliari amalgamati da antichissime conoscenze in quel della piccola Torchiara.
Va ricordato ancora ai nostri affezionati cinque lettori che di questa banca scrivemmo mesi addietro (vedi foto), azzardando la descrizione della fisionomia del servizio di tesoreria che l’istituto di famiglia svolgeva in molti centri del Cilento, con tutto ciò che questo significava, e significa, in termini non solo di ovvi profitti bancari ma di gestione vera e propria del potere politico ed istituzionale, giocoforza potenziata da un innegabile influsso derivante dalla tenenza dei cordoni della borsa. Questa banca, scrivevamo a novembre, gestisce la tesoreria dei Comuni di Cicerale, Omignano, Laureana Cilento, Lustra, Ogliastro Cilento, Prignano Cilento, Torchiara, Agropoli, Perdifumo, Rutino, Castelnuovo Cilento, Salento, Giungano, Albanella. A Capaccio, ultimo comune amministrato da Alfieri – è già stato sindaco di Torchiara e Agropoli diverse volte -, il servizio lo svolge la locale Bcc guidata però da un ex alto dirigente della stessa Magna Grecia, si gioca(va) in casa. Sempre a novembre 2024 scrivevamo: “I comuni indicati godono del servizio singolarmente ma l’Unione dei comuni dell’Alto Cilento, della quale abbiamo scritto tempo fa rilevandone l’alchimia politico-istituzionale volta alla sofisticazione sistematica del dettato normativo, pure è servita dalla Magna Grecia, come la stessa Comunità montana del territorio. Insomma, non sono pochi gli enti locali sotto il controllo della banca Alfieri. Di conseguenza non è neppure irrilevante il giro di danaro”.
Unione dei Comuni, dunque, una «geniale» intuizione di Alfieri di tempi lontani e che non si capisce come mai la placida magistratura contabile tuttora perduri in un apparente disinteresse viste le plateali anomalie tecniche, giuridiche e finanziarie che, tanto per dire, hanno sin qui prodotto un debito pubblico di oltre 20 milioni che i cilentani stanno già pagando in varie forme: magari applaudendo i probabili successori degli Alfieri alla guida del territorio. Ma questo bisognerebbe chiederlo (anche) alla Corte dei Conti. Simul stabunt, simul cadent, appunto.





