Di Vito Pinto
L’antico e diroccato “Casello 21”, ex Casa cantoniera a Paestum, con accesso dalla Porta Sirena, è lo scenario di sogno di una vita dedicata all’arte e a quel mondo dorico di cui Sergio Vecchio fu indiscusso cantore con le sue opere pittoriche e con i suoi testi. Un mondo che ancora parla all’uomo di oggi, avendo saputo costruirsi una civiltà senza tempo, una cultura capace di parlare a tutti con un linguaggio universale: la bellezza dell’arte. Una bellezza saggia che, attraverso Vecchio, si richiama alla romana Minerva, e non alla greca Athena Parthénos: «Avverto il suo profumo tra i boschi, – scriveva – odo le sue movenze nel Giardino. Minerva è la mia pittura, è la mia croce, è la mia delizia. Gioca con i pennelli del mio studio, prende a calci il mio cuore». E poi, quasi in un sussurro: «Minerva non c’è, m’invita a cena e si nega». Eppure nessuno, più di Vecchio, così radicato in una terra di miti e di storia, riusciva a sentire l’odore di antiche presenze tra ruderi re-innalzati a colonne di un tempio senza tetto, su una piana ritrovata, tra rose sempre più rare. Diceva: «le furie della caducità si sono dovute fermare a Paestum», e questo grazie a quell’antico e continuo rapporto che lui ha sempre avuto con un territorio immaginifico, dove bufale nere hanno lasciato la palude archeologica e sono trasmigrate in protettive stalle: la loro libertà ormai è solo su tele e carte rare, quelle arabe di Acireale “costituite dalle morbide stratificazioni della cellulosa che si sfrangia nei bordi incerti”, ha scritto Enzo Napoli, usate dall’artista pestano per nuovi, affabulanti percorsi.
Berretto da marinaio, lo sguardo fisso verso un futuro troppo presto negatogli, Sergio Vecchio sembra voler interpretare quegli scomparsi sbuffi di fumo di una vecchia vaporiera in stallo avanti al Casello 21. Ricordando il suo viaggio nel Cilento, Giuseppe Ungaretti nel suo “la rosa di Pesto” ricordava: «Quel treno sembrava così estraneo ai luoghi, e così umani, il suo grido e il suo fumo». Quanto vere queste sensazioni di un poeta e quanto vere quelle di un artista abituato a meditare di arte nella sua sconfinata solitudine. La memoria ricorda quanto Sergio diceva, con il garbo elegante e la inconsapevole ritrosia dei grandi che sempre lo distinguevano: «Anch’io come Ungaretti, Piovene, Gatto e i grandi poeti avrei voluto descrivere in versi o in prosa lo spettacolo delle rovine al tramonto o dipingere come gli artisti astratti e le pop star l’incanto di Poseidonia.» E ritorna Ungaretti: «Nel cuore della pietra brucia la luce che non consuma e traspare la sua indifferenza sacra».
«In realtà – proseguiva Sergio – sono soltanto un uomo che dipinge nel silenzio dello studio e che sogna, nel dormiveglia di albe solitarie, Calliope che mi racconta di Hera Argiva e della sua storia che umilmente rappresento in pittura… un dialetto di pietre metriche e di rughe, di case grigie, un campanile di storie e di affetti, di progetti negati, di croci e di favole da custodire…»
Memoria personale e memoria storica si incrociano; Paestum è allo stesso tempo il suo inalienabile destino e il fulcro di fascinazione e di mistero difficile da decifrare tanto da far dire all’ artista: “A fatica ho intravisto i templi, sempre più inaccessibili e nascosti, quasi irraggiungibili.” Parole in libertà, sembrano, ma “il luogo abitava l’artista più di quanto questi abitasse il luogo”, sottolinea Oscar Nicodemo.
Egli stesso uomo greco di quella polis dove la ieraticità dell’artista si confondeva con il silenzio del saggio in riflessione di pensiero, diceva: “Esiste una mia identificazione non solo autobiografica con il concetto di rovine.” Sergio ha fatto della sua arte una filosofia antica da gustare e meditare, così come i testi di Parmenide e Zenone. Gli animali erano quelli della sua terra pestana, le bufale mansuete, i corvi gracchianti, le rondini nel loro gioioso garrire. Sapeva aspettare il crepuscolo dove una Musa compiacente, incontrata nella semioscurità delle incertezze, veniva offerta in dialogo con la natura, gli uccelli, il lupo, il silenzio notturno.
La sua fuga dai luoghi natii e dal suo passato, il suo vagabondare per i luoghi d’arte d’Italia e di Parigi, non fecero altro che riportare nell’animo dell’artista una profonda nostalgia, un intimo e ancestrale attaccamento a quelle rovine che pure continuavano (e continuano) a dialogare con il tempo della storia e con il futuro culturale di un territorio. Ricordava, Sergio: «Nei giardini del Museo in cui era la dimora di Pellegrino Sestieri ho spesso dormito come suo ospite. Poi successivamente con Mario Napoli sovrintendente (troppo presto dimenticato e col quale vide per la prima volta la “tomba del tuffatore”) ho incontrato artisti, studiosi di tutto il mondo… All’inizio guardavo con diffidenza l’area archeologica che anzi mi opprimeva: volevo fuggire perché ero interessato alle avanguardie. E me ne andai ma dovunque andassi incontravo artisti: Paolini a Torino, Trotta di Stio Cilento, operante in quegli anni a Milano, Del Pezzo che nelle loro opere rivisitavano Paestum e l’archeologia, oppure tra i rigattieri di Roma e di Parigi trovavo acqueforti dei templi ed iniziai così la mia raccolta-archivio ripiombando nell’angoscia e nella mia voglia di ritornare a casa».
E fu il ritorno a casa, ai luoghi di sempre dove il respiro di un’antica civiltà palpita ancora con pensieri ellenici, con sospiri romani, all’ombra di grandiosi templi, memorie di una religiosità mutata, ma mai spenta.
Scrive Gabriella Taddeo in nota critica: “Sergio Vecchio ha ritrovato quindi, come un vero eroe epico, la sua Itaca mentre la Magna Grecia, musa dell’intera sua vita, gli ha suggerito le passioni cromatiche e l’incrocio di segni classici e contemporanei.”
L’artista racconta la sua terra, la sua Paestum in continuità di narrazione con i classici greci, e come Omero narrò le epiche imprese della guerra di Troia e l’interminabile viaggio di Ulisse, così Vecchio narra la sua Paestum con segni cromatici e figure antiche che rimandano al mito, al genius loci di un popolo che seppe costruirsi una civiltà, una cultura che va oltre ogni immaginabile finito.
Nel lontano 1983, Luigi Giordano scriveva: «Sergio Vecchio, artista da una vita radicato negli spazi del mito, una infanzia vissuta, inconsapevole, tra Cerere e Nettuno, dietro la Porta delle Sirene e sotto la Torre d’Oriente, saggio e gentile come un vecchio vero, il Dorico lo ha scoperto nelle sue opere, tanto tempo fa. Capitelli e colonne, Storia e Mito, Templi e Basiliche lo hanno attratto prima che arrivasse anche qui dalle terre lontane, la modernità tarda e post».
Una pittura fuori da ogni schema, un segno al di là di ogni convenzione d’arte, sì che oggi bene può allestirsi, ad iniziativa di “Opificio Crea”, Presidente Enzo Adinolfi, e della famiglia, in primis la moglie Bruna Alfieri, a cura di Gabriella Taddeo, una mostra in memoria dal titolo “L’impronta dorica nel segno del contemporaneo”: cinque carte rare di Acireale e tredici oli e tecniche miste, in esposizione dal 21 febbraio al 3 marzo nei prestigiosi spazi del Complesso San Michele di Salerno (vernissage ore 18 del 21 febbraio). Una esposizione “essenziale” di opere che il maestro pestano ha realizzato nel corso del suo passaggio tra noi, ma “da considerarsi importante e significativa – ha scritto Francesco Alfieri, Presidente della Provincia – il cui scopo è rendere visibile un segno artistico che, partendo dalle origini pestane dell’autore, riesce ad unire classicità e contemporaneo e fa della Magna Grecia un fulcro essenziale nella storia del territorio salernitano”.
Nel 1984 Pierre Restany lo segnalò per l’inserimento nel Catalogo Generale della Grafica Italiana dell’Arte Monda¬dori con la seguente motivazione: “Sergio Vecchio nel suo tentativo di recupero dei dati artistici dell’archeologia, ha saputo dare alle sue tempere e acquerelli la dimensione evocativa di una intera civiltà”.
Diceva: «Capivo il fascino dei luoghi in cui abitavo, amavo l’archeologia non come archeologo ma come artista. Il mio destino era disegnare il mito» Ovvero poetica di arte senza tempo.
Così come senza tempo è quell’arte affascinante chiamata ceramica: suoi oggetti fittili furono mostrati in “Itacaddio”, una suggestiva sera pestana illuminata da tremolanti fiammelle, tra barche ed altri oggetti marinari di quell’arenile che aveva già visto i fasti di Posidonia-Paestum, una civiltà che qui aveva impiantato una società avanzata ed opulenta. E dopo “Itacaddio” Vecchio risale i monti «in cerca di pace e di solitudine, di amici che non fanno casino e di nuove avventure nei boschi con bestie feroci addomesticate, di fiumi non taroccati e di acqua di mare che cura le mie ferite». E fu l’evento tra i centri del Calore, “Marinai di montagna / e boschi di mare”, dicotomia ideale per il suo carattere, in cui far muovere mostre, eventi, incontri. «Ho immaginato di essere un naufrago che sbarca in montagna insieme ad altri artisti, anch’essi naufraghi felici alla scoperta di un panorama nuovo». Insieme ci riscaldammo al fuoco del raku.Ecco il “gran viaggiatore nel tempo senza tempo, turista poeta dei templi fuori tempi di Paestum”.
Risuonano ancora, con calma eleganza, le sue parole: «Le mie mani pulite sporche di inchiostro e di fatica… ho attraversato la mia vita di pittore in ogni dove guadagnando amicizia ovunque e vino senza inchinarmi a nessuno se non alla pittura».
Silenzio! il mito è ancora tra noi.