di Rino Mele
Alla fine del suo mandato di presidente della Regione, De Luca ancora s’intestardisce a parlare come un oracolo: le sue parole non hanno mai avuto un carattere dialogico, sono sempre state definitive, assordanti. Con un’aggressività inesausta ma anche, a volte, un complice richiamo su coloro che, da liberi cittadini, ha trasformato in servili dipendenti. Le sue parole non aspettano risposte, non s’aprono al discorso sulla verità ma, nella presunzione di essere la verità, si chiudono nella violenza della voce. Minacciosamente rende avversario anche l’alleato, cercando di sottometterlo sempre di più (gli alleati sono sempre per lui avversari) e di questa surreale e dolorosa condizione comincia ad accorgersi la segretaria nazionale del PD, oggetto d’improvvidi attacchi, appena dopo i patti stabiliti. Il suo profilo pubblico è sempre stato una funzione della sua petrosa immagine interiore di capo assoluto e antidemocratico, sciolto da qualsiasi vincolo di congruenza e conseguenzialità. Pensa la Regione Campania, in una visione paradossale e illogica, come un suo feudo: e purtroppo la Schlein (di lei, intanto De Luca continua a parlare male) sta provvedendo a trasformare questo desiderio d’illimitato potere in precaria realtà politica: ieri De Luca figlio ha presentato la propria candidatura a segretario regionale e oggi il “Corriere della Sera, a pag. 13, ironicamente commenta: “Sarà una corsa in solitaria”. Pure, solo due giorni fa, De Luca padre ha avuto l’ardire di esclamare: “Non c’è nessun patto”. Poi, ha spiegato perché: “Perché non rinunzio alla mia ragione e alle mie valutazioni” (v. la Cronaca di Napoli su “Repubblica” di ieri). Nel suo ultimo libro (La sfida, edizioni PIEMME), Vincenzo De Luca ricorda L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone e riporta un dialogo tra il terribile cardinale Benedetto Caetani e Papa Celestino V. Nella parte citata, a pag. 252 del suo libro, l’infido cardinale rimprovera al papa santo l’eccessiva bontà e onestà intellettuale e severamente lo ammonisce: ‘Nessuna grande amministrazione politica, militare o religiosa può essere governata come una famiglia’. Con ignobile pervicacia, Benedetto Caetani riuscìrà a spingere il papa nel dirupo di dubbi sempre più dolorosi e, infine, con l’inganno e la sua obliqua malafede, a farlo dimettere. Dopo Celestino, fu lui eletto papa, nel 1294, col nome di Bonifacio VIII e, quando Dante, all’inizio della primavera del 1300, immagina di fare il viaggio tra i morti fino a intravedere la geometrica perfezione della Trinità, papa Bonifacio è ancora vivo: ma il poeta lo pone (virtualmente) già nell’Inferno, tra i simoniaci, quelli che adulterano “le cose di Dio” e le vendono. Perché De Luca, nel suo ultimo libro, cita l’infido personaggio del cardinale? Per dirci, con le parole di Benedetto Caetani, la difficoltà di governare una regione: “Non può essere governata come una famiglia”. Ma è anche sbagliato, e molto rischioso, governarla con la famiglia. (Alberto Savinio, L’isola dei giocattoli, olio su tela 1930. Torino, Galleria d’Arte moderna e contemporanea)





