di Clemente Ultimo
La fine dell’innocenza. Il giorno che ha segnato un “prima” e un “dopo” nella vita di una generazione di giovani militanti della destra salernitana, e non solo. A cinquant’anni di distanza dall’uccisione di Carlo Falvella resta questa la percezione più forte, una consapevolezza – prima istintiva, poi maturata in profondità – che dalla sera di quel 7 luglio niente sarebbe stato come prima.
Il tam tam di telefonate durante la notte e nelle primissime ore della mattina – in un’epoca, quasi inimmaginabile oggi, in cui l’unico telefono era quello fisso -, il passaparola sempre più rapido e convulso, la corsa verso via Diaz – dove si trovava la federazione del Movimento Sociale Italiano –, il ritrovarsi poi nei corridoi dell’ospedale, infine la certezza della morte di Carlo e la rabbia che monta. L’incapacità di trovare un senso a quello che è accaduto e la voglia disperata, quanto velleitaria, di una vendetta. Quale che fosse. E, pian piano, una certezza che si fa strada in quei momenti frenetici e drammatici.
«Nel giro di poche ore – ricorda Angelo Retta, all’epoca giovanissimo militante del Fronte della Gioventù, poi consigliere comunale – ci rendemmo conto che quel che era successo a Carlo sarebbe potuto accadere ad ognuno di noi. Due giorni prima lo avevo incontrato al Kursaal, avevamo trascorso parecchio tempo insieme a diversi amici, ora mi trovavo a correre verso l’ospedale sapendo che era stato accoltellato a morte».
«Una lunga amicizia – prosegue Angelo Retta – mi ha legato a Pippo Falvella. La morte di Carlo è stata sempre presente, anche se non ne abbiamo parlato tantissimo, molte cose ce le siamo dette tra le righe. Ci sono due elementi, però, che vanno evidenziati: in primis l’uccisione di Carlo non fu un incidente; lo testimonia il fatto che le coltellate che lo colpirono furono date in maniera da provocare il maggior danno possibile, non fu una colluttazione in cui “accidentalmente” si arrivò all’uso di una lama, le coltellate furono inflitte per uccidere. In secondo luogo, ci fu un passaggio che potremmo definire culturale prima ancora che politico, destinato ad incidere in profondità nella storia di questo Paese: nell’immediatezza la condanna dell’aggressione fu unanime, praticamente non ci fu partito che mancò di prendere posizione, anche con manifesti affissi in città. Con il passare dei mesi, però, iniziarono i distinguo. Si arrivò, infine, a dare corpo allo slogan secondo cui “uccidere un fascista non è reato”, perché “il fascista è una provocazione vivente”. Questo portò ad un cambio di paradigma, più che ad un cambio di pratica politica».
«L’omicidio di Carlo – ricorda Italo Guarino, coetaneo di Falvella e come lui militante della destra giovanile – segnò la fine di una politica all’insegna della goliardia, di quella politica che nel corso delle assemblee studentesche poteva portare ad una scazzottata, destinata però a finire lì. Dopo il 7 luglio cambiò tutto: tornando a casa la sera o scendendo dall’autobus per andare a scuola iniziammo a guardarci le spalle, la possibilità di un’aggressione era ormai una realtà con cui fare i conti».
Quell’estate del ’72 fu anche un momento di profonda riflessione per molti, chiamati a confrontarsi con un clima profondamente cambiato: «Nei mesi successivi – prosegue Guarino – ci fu chi scelse di fare un passo indietro, mettendo fine al proprio impegno politico, ritenuto ormai troppo pericoloso. E del resto dopo l’uccisione di Carlo, nelle prime fasi del processo a carico di Marini, iniziò una serie di scontri di piazza sempre più violenti: ai pugni si sostituirono le molotov e qualcuno iniziò a sparare. In quei momenti capitava di essere inconsapevolmente coraggiosi; ripensandoci non puoi non rimanere interdetto riflettendo sul pericolo che hai corso».
Cambiano il clima politico e le abitudini – con un occhio sempre più attento a cogliere eventuali segnali di pericolo -, muta anche l’atteggiamento nei confronti dei vertici del partito: «In più di un’occasione – sottolinea Italo Guarino – abbiamo contestato Almirante (allora segretario nazionale del Msi, nda) durante le sue visite ed i comizi a Salerno: lui parlava di pacificazione, noi continuavamo a pensare che avevano ucciso Carlo, che in tante città italiane bruciavano le nostre sedi. La prospettiva era quella dello scontro, non della pacificazione. Certo, anche noi ne abbiamo date, ma in quel momento avemmo chiara la sensazione che lo slogan più violento della sinistra, il famigerato “uccidere un fascista non è reato”, si fosse trasformato nel loro modo di far politica».
Una divisione profonda, i cui echi arrivano fino ad oggi. «Mi meraviglia chi si meraviglia dell’intervento dell’Anpi – dice Angelo Retta -, sono dichiarazioni che si inseriscono nel solco di una precisa prospettiva. Mi meraviglia, inoltre, chi facendo parte di una comunità cerca il dialogo con certi ambienti». Considerazione che, tuttavia, non si traduce in una cristallizzazione del ricordo e nell’impossibilità di una sua storicizzazione. «Tra il 1998 ed il 1999 – conclude Retta – io e Cesare Festa, entrambi consiglieri comunali, chiedemmo all’allora sindaco Vincenzo De Luca di intitolare una strada o una piazza alla memoria di Carlo. Si mostrò disponibile, “a patto che non ci sia nessuna speculazione politica” sottolineò. Altre priorità, tuttavia, impedirono di raggiungere il traguardo nel corso di quella consiliatura».