La tournée europea dell’Orchestra Giovanile degli USA ha fatto tappa al Festival di Ravello, con una bacchetta d’eccezione Daniel Harding, la cui esperienza ha guidato i ragazzi. Applausi per la violoncellista Alisa Weilerstein
Di Alfonso Mauro
“Un giorno cuculo e usignol / in canto si sfidarono: / chi, per abilità, / dei due ‘l più gran capolavor / cantando, avrebbe il sommo allòr / dell’artisticità!” così il brano dal ciclo di canti popolari e poesie per ragazzi “Des Knaben Wundernhorn” (dal tedesco: “Il corno magico del fanciullo”) musicato da Gustav Mahler in deliziosi Lieder citatissimi nelle prime cinque sinfonie — così la musica, quinta sinfonia, nel corale del secondo movimento, nel celeberrimo adagietto e nel rondò finale, a piene mani attingenti e trasponenti dal Lied della quasi esopiana sfida tra cuculo e usignolo con l’asino a giudice (tanto ha le orecchie grandi!); piaccia a chi legge pur riconoscere quest’ultimo allegorico intestardito dietro la penna a chiosa di cotanto vespro ravellese, ma performers, performance, e acustica non sono certo stati l’usignolo. Domenica dal fiorito palco di Villa Rufolo in Ravello; National Youth Orchestra of the USA, virtuosini tra i 16 e i 19 in pantaloni scarlatti e sneakers sgommanti per tournée in Europa, auspicabilmente disciplinati (e disperatamente spronati) dalla già felicemente nota bacchetta del maestro Daniel Harding (a sua volta, illo tempore, membro della National Youth Orchestra of Great Britain); violoncello solista, la pluripremiata e di buon talento Alisa Weilerstein. Un programma da esaurire in sold-out i botteghini del giardino di Klingsor vuoi per la tappa agostana in destinazione disiata da tanti genitori accompagnatori, vuoi per la passione tardoromantica dei soliti melomani (mea culpa!), vuoi per l’immediata prossimità calendariale al concerto all’alba — quello sold-out fino alla fine dei tempi. In apertura, il Concerto per violoncello in mi minore, Op. 85 (1919) di Sir Edward Elgar (opera 85! e non 8, come erroneamente riportato sul sito internet del festivalle e nelle note di sala-velivolo planante nell’indifferenziata), e, in crescendo di vespro, la Sinfonia n.5 in do diesis minore (1902) di Gustav Mahler. Come non reminiscere Luchino Visconti!? Per organico, spirito, e tramatura, questo quasi cameristico concerto, ultimo lavoro elgariano degno di nota, elegiaco e contemplativamente a inquieto testimone delle artiglierie esplose dalla Grande Guerra appena a una traversata di Manica, è vagamente perdutosi nel postpiovano imbrunire della “costa sopra il mare riguardante… piena di cittá, di giardini e di fontane”; bene i pizzicati e le altre percussività che nessuna registrazione YouTube sa dall’ascolto dal vivo riprendere, un po’ men bene i fiati già esigui e quasi acusticamente scomparsi giù per l’Infinito; salvifiche tuttavia la ben visibile bacchetta di Harding e l’archetto della Weilerstein, quantunque pur quest’ultimo adagiatosi su esigue ma sorprendenti incertezze e sbiaditosi negli acuti cui è stato vano porgere discernente orecchio. Il brano è noto per la sua amabile, cantabile semplicità, mezzo-compianto sulla Merry England che fu, arenatasi quasi sulle sponde e nelle trincee del bellico Continente — una melanconia da renderlo non à la page nel primissimo dopoguerra, ma di un’intimità delicata cui non ha giovato la performance nel suo insieme. Il cello applauditissimo ha bissato con il preludio dalla Suite n.1 in sol maggiore, BWV1007, di Bach, eseguito pedissequamente asciutto. Quelle piccole gioie che quasi si fan delusione. Ma Mahler! L’attesa era fragorosa, elettrica — e schiacciatone il povero concerto preludente. Se Wagner è il Wotan di Ravello, Gustav ne è il Donner (Thor, diremmo con la Marvel); ma se Giove Pluvio ha graziato il serotino sinfone en plein air, è ai virtuosini riuscito disarmare il Nume nordico del suo tuono-martello, per mezzo d’una resa priva d’audacia e intimiditasi dietro qualche a-tempo claudicante, un impasto flebile non sorretto dall’eco d’un teatro, una carente visione d’insieme che troppo ha segmentato il fluire corposo, i secondi violini sopra sotto e di fianco le righe del pentagramma, e la quasi beethoveniana tromba della Trauermarsch (I, 1) che ha sin dalle prime battute del temutissimo assolo inteso mostrar di che past(ell)a fosse fatta. Meglio, come su detto, gli elementi più defilati negli ascolti digital: bataccio, gong, Glockenspiel, e la stessa tuba. Un’epifania l’oboe. La poliedrica coloritura dei mondi sinfonici mahleriani può esser salvata dal grigiore dalla direzione d’orchestra, e crediamo sapiente in ciò Harding. La comprensibile stanchezza gravata sullo Scherzo (II, 3) si è disciolta nell’Adagietto (III, 4) ov’è meglio alla bacchetta il destro riuscito di disciplinare gli archi, e nel Rondò (III, 5) che di qualche brillantezza sua è finalmente filtrato di sotto il pallio della gioventù che sempre posa inaccuratezze sulle pubbliche esibizioni al cui corale di lodi arrampicate sul topos de les enfants prodiges fa generalmente disincantante seguito tutta la fenomenologia di talenti ancora in pieno divenir formativo. “Aber Kukuk singst gut Choral!”, e un’ora e venti di sinfonia “contenente il mondo intero” è effettivamente rispettabile impresa per teen musicians. Vien tuttavia da domandarsi (peccando di costaiola malizia appresa e maturata nel dopoconcerto chic-scicchissimo da dar fondo alle proletarie tasche) quale concerto abbiano in realtà ascoltato quelle penne che in sole lodi si sono profuse gocciolando tra le colonne d’altre testate. Se quello stilo è grosso, fortunatamente l’Esel del Lied mahleriano trasposto in infinitamente tortuosa variazione sinfonica aveva e (meglio) ha “zwei Ohren gross”. È a postludio, e con pubblico già defluente, scoppiettato un bis orchestrale; ma dopo le note del genio austro-boemo, per enervato che lo si sia stiracchiato, è meglio il silenzio — quello rispettoso nostro, quello altrui per non aver riconosciuto di quale brano si trattasse.