L’Isola degli Dei: Procida capitale della Diacultura - Le Cronache
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L’Isola degli Dei: Procida capitale della Diacultura

L’Isola degli Dei: Procida capitale della Diacultura

Giovedì 28 aprile alle ore 18, la presentazione dell’ultima opera di Gigi Spina, in libreria per Liguori editore, nella splendida cornice della Cappella Palatina – Complesso di San Pietro a Corte. L’ autore si offrirà al dibattito, in un dialogo aperto con i suoi lettori e con Gennaro Casillo, Maria Giustina Laurenzi, Totti Tucci

Procida diventata Capitale italiana della Cultura. Ma non può ignorare la Diacultura, di cui potrebbe essere capitale unica e inedita. La Diacultura, di origine politeista, mette insieme in maniera indistinguibile passato e presente, classico e moderno, alto e basso, papiri e cinema, rivendicando la possibilità di farne la chiave per vivere meglio il presente e costruire un futuro auspicabile. In occasione di questa prestigiosa designazione, Gigi Spina, prof.emerito della cattedra di Filologia classica presso l’ Universita’ degli Studi di Napoli Federico II, ha scritto un delizioso libro “L’isola degli Dei -Procida capitale della Diacultura”, in libreria per le edizioni Liguori. Un modo nuovo di legare il mito del passato con la realtà dei nostri giorni.  L’ autore si offrirà al dibattito, in un dialogo aperto con i suoi lettori e con Gennaro Casillo, Maria Giustina Laurenzi, Totti Tucci, nella splendida cornice della Cappella Palatina – Complesso di San Pietro a Corte, giovedì 28 aprile, alle ore 18, in una ferace serata che saluterà l’introduzione di Clotilde Baccari Cioffi, impreziosita dalle letture di Miriam Candurro. Le scene di questo volumetto mostrano le tante storie diaculturali di Procida, rimaste finora sconosciute anche a chi la frequenta da anni. Dal porto, visitato da Ercole, alla sirena approdata a Vivara; dalla sfilata di moda delle donne dell’Odissea sui gradini della Corricella alla storica contesa fra Procidani e Ischitani; dalla ricerca epicurea di un enigmatico Faro al breve esilio ovidiano a Terra Murata, fino alla triste storia di Orfeo ed Euridice alla Chiaiolella. Tutto quello che viene testimoniato dai diversi narratori del volumetto prelude alla profetica notte del passaggio d’anno fra 2021 e 2022. Riguardo la Diacultura il termine lo spiega chiaramente il professore testo che ha dedicato altre pubblicazioni a queste improbabili e amorose corrispondenze dei miti. “E’ una pratica di rapporto col mondo antico che ho esercitato da molti anni anche se solo recentemente ne ho definito meglio i contorni. Nel 1983, in occasione di un congresso internazionale di Papirologia, pubblicai sul Manifesto un’intervista col Vesuvio in cui il vulcano rivendicava il suo ruolo positivo nella conservazione dei papiri di Ercolano. Più recentemente ho messo in scena un lungo monologo, “Fu mio nonno a chiamarmi Odisseo”, in cui si alternano letture di versi dell’Iliade e dell’Odissea a riflessioni sulla vita di un eroe capace di affrontare così tante peripezie. Non ho, dunque, un atteggiamento sacrale o ‘religioso’ verso il mondo antico che, in quanto umano, profondamente umano, non è a mio parere un modello o uno scrigno di valori universali e perenni. Fu, intanto, un mondo complesso, come sono le culture in genere, non generalizzabile e non riconducibile a stereotipi. Lo sguardo antropologico è servito a indagare meglio in quelle culture e a superare, io spero definitivamente, un classicismo che ha avuto le sue stagioni anche vivaci, ma ora non credo abbia più niente da offrire. Non si tratta, dunque, per gli antichisti, di attualizzare i classici o le culture antiche, renderle cioè capaci di parlarci ancora, magari schierandosi dalla parte di questo o quel pensatore antico o addirittura scrivendo in greco antico su temi moderni. Gli attuali siamo noi, ciascuno e ciascuna con le proprie storie, e oggi siamo in grado di guardare alla complessità di quei mondi, molto diversi dai nostri, per cercare di comprenderne le dinamiche interne, le contraddizioni, le luci e le ombre. Non c’è stato il vuoto, nei secoli che ci separano dall’Atene di Pericle o dalla Roma di Augusto; per questo, nel ripensare a quelle culture per tentare di farle rivivere nel nostro presente – rivivere, non renderle attuali, rivivere per come furono capaci di vivere – non possiamo ignorare tutti gli strati culturali che si sono accumulati da loro a noi, fino al nostro presente, e che interagiscono necessariamente, inevitabilmente, direi, con quel passato. La diacultura è dunque una possibile ricezione proficua del passato, secondo la quale il passato si presenta per quello che è stato, non per il modello che alcuni pensano possa essere, per l’insegnamento che alcuni pensano ancora possa dare, ma come forma antica e diversa di umanità, più facile forse da interpretare perché, nel tempo, abbiamo recepito e sentiti più vicini a noi alcuni passaggi chiave delle loro storie. Ma con la consapevolezza che ci allontaniamo sempre più da quei mondi, che quindi dobbiamo solo preoccuparci di conservare al meglio, con tante altre cose, nel nostro patrimonio culturale come elemento dialettico di analogia, di arricchimento. La diacultura non teme dunque i corto-circuiti arditi perché sa praticare le distinzioni e riconoscere le differenze; la diacultura accumula, non sostituisce o assolutizza; complica, non semplifica. La rilettura moderna dei classici, dei loro autori, delle vite che li hanno prodotti, non è dunque una lettura che attualizza, ma una lettura che precisa i confini: ripeto, le diversità. Continuerò a confrontarmi orizzontalmente con i miei contemporanei e le mie contemporanee, da antichista, perché so che è con loro che dovrò fissare gli obiettivi del mio vivere e lottare o fare compromessi per realizzarli, non con Demostene o Cicerone o Seneca o altri, che invece mi serviranno ad arricchire la consapevolezza del divenire, del passare del tempo e delle trasformazioni. Penso, dunque che questo possa essere uno dei modi di rileggere la cultura antica nella nostra epoca, accanto a modi simili, purché si pongano l’obiettivo, come ho avuto già modo di scrivere, non di difendere il fortino dagli assedianti, ma di divulgarlo e renderlo familiare e visitabile, pur nella sua diversità, per decidere di inserirlo nelle nuove forme di conoscenza”.