Sulle tracce di Antonio Baglivo, per l’ultimo libro d’artista “Scorre il vento”, creato a sei mani insieme al fotografo Armando Cerzosimo e il poeta Gerardo Pedicini
Di OLGA CHIEFFI
La ricerca di una creatività senza freni né regole, che coinvolge tutti i sensi e che include anche il libro come oggetto dalle infinite possibilità comunicative, è il credo estetico di Antonio Baglivo. Un lavoro a tutto campo, che si è snodato lungo le principali tendenze artistiche del XX secolo, senza lasciarsi, però, mai intrappolare da una rigida adesione alle regole, attraversa la vita artistica dell’artista di Casal Velino, ospite della cittadina di Bellizzi, il quale, sin dalle sue prime sperimentazioni, in Accademia, ha sempre dialogato con la libertà creativa della meraviglia e con un uso sottile, quanto spregiudicato, dell’ironia. Una figura “leonardesca”, la sua, che lo ha portato anche a mettere da parte le ambizioni individualistiche, per allogare il proprio talento al servizio della collettività, ponendo chiunque nella condizione di comprendere i processi creativi e di avvalersene in prima persona. La sua casa è un delizioso museo, il cui percorso espositivo propone un itinerario diversificato e complesso, anche dal punto di vista cronologico, incentrato sulla svariata attività di Baglivo e ben ne evidenzia la poliedrica produzione, ponendo in relazione alcuni dei suoi più tipici momenti creativi. Indagando sul valore degli oggetti e sulle loro potenzialità, sul potere del segno, che supera lo stesso significato, Baglivo ha cercato progressivamente di superare il limite delle cose, dei progetti stessi, divenendo, in questo modo, assertore della superabilità dei confini, se affrontati con occhi sempre diversi. Così, nelle teche e sulle pareti tocchiamo con mano il suo percorso artistico, dominato da un daimon, mai sotterrato, che va dal visual dei primi anni Settanta, alla collezione di Dadi d’artista, da cui proviene anche il nome del suo laboratorio Dadodue, a sculture, ceramiche, opere materiche, ma su tutto, libri-oggetto e libri d’artista. I libri scultura, come Teca Mundi, oggetti d’arte che del libro mantengono l’aspetto tradizionale, ma non la struttura e la funzione, ci mostrano diverse realtà e due differenti dimensioni: non più solo pagine stampate, ma al loro posto materie, forme, colori, immagini, segni, libri non necessariamente realizzati su supporto cartaceo, ma nati dall’utilizzo altri materiali: metallo, legno, terracotta, con pagine rilegate, dipinte, libri liberi di raccontare una storia, narrazioni che si sedimentano poco a poco, come i gusci delle conchiglie di cui è un riconosciuto collezionista, dal passato ad oggi, oppure che esplodono nell’attimo stesso in cui l’artista crea. I libri d’artista, invece, che vanno oltre il concetto comune di libro, rendendo osmotici al loro interno i vari linguaggi delle arti, dalla poesia, alla fotografia, nascono dall’incontro di Baglivo con i rappresentanti delle varie muse e sono interamente realizzati in proprio dall’autore, in ogni fase della lavorazione, utilizzando carte povere, ordinarie o riciclate, e carte cotone per le calcografie, in tiratura limitatissima, o addirittura pezzi unici e, quindi, opere d’arte non ripetibili, che rappresentano il senso del lavoro dell’artista intorno al libro, come medium estetico, inserito all’interno del suo articolato e complesso percorso. Tra le mani ci è giunto l’ultimo libro realizzato da Antonio Baglivo per la sua IbridiLibri, “Scorre il Vento”, che lo vede dialogare con il fotografo Armando Cerzosimo e il poeta Gerardo Pedicini. Tre le liriche del poeta dedicate a Salerno, in un irripetibile miracolo di trasparenza e rarefazione, che sposano le due immagini di Armando Cerzosimo, che fissa Antonio Baglivo, in riva al mare, sulla “spiaggia dei poveri”, in una simbiosi così mite e piena, da far supporre, nella seconda immagine, un virtuosistico e stordente controluce, una sorta di religiosità sottratta a qualsiasi rovello metafisico, consumata con la realtà, dentro la realtà. Il dono è all’interno, una calcografia firmata dall’artista, frutto di quella continua mescolanza fra rigore tecnico, alchimia di segno e colore, caratterizzata da un segno sfumato, dai confini indeterminati. Ombre, presenze minute diventano tessiture, con lo sguardo puntato, saggiamente, all’universale: come nella poesia di Pedicini, poi, le pause e gli spazi vuoti arrivano a contare alla pari degli spazi pieni, tanto che le ombre assumono uguale o maggiore importanza della luce, nelle immagini, in un adagio, e qui pensiamo al Largo del concerto per flauto dolce sopranino e orchestra di Antonio Vivaldi in Do Maggiore RV 443, che in musica, mai potrà essere assenza, come afferma Alessandro Carandente nella postfazione di questa plaquette, bensì atanor, in cui il chiaro e l’oscuro, l’iniziatico e il razionale si sfiorano, s’intendono, evocando il passato e schiudendo la sua segreta “quinta sonora” al futuro.