di Olga Chieffi
“Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. Nelle pene e nell’insulto ci stringemmo in mutuo patto, la gran causa del riscatto niun di noi vorrà tradir. Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà: o vivremo del lavoro o pugnando si morrà….” Il 28 marzo 1886 a Milano, nel corso della nella festa proletaria del Partito Operaio Italiano viene eseguito per la prima volta un brano intitolato Inno dei Lavoratori, composto da Amintore Galli su un testo di un giovane ancora poco conosciuto che risponde al nome di Filippo Turati, il futuro apostolo di quella corrente che verrà chiamata “umanesimo socialista”. Gli esponenti del primo socialismo italiano, tra i quali in particolare figurava Costantino Lazzari, il futuro segretario del Partito Socialista, dopo aver notato che non c’era un canto italiano che ispirasse il proletariato, nel 1886 incaricarono il giovane Filippo Turati, avvocato ma con velleità letterarie, di elaborare un testo da musicare. Tuttavia il risultato fu considerato dallo stesso autore «volgare, sciatto, pedestre» ma Lazzari ne utilizzò ugualmente le parole: in fondo, esse prendevano spunto da altri canti o da noti motti e richiamavano tanti temi che agitavano le coscienze dell’epoca. Perché l’inno avesse fortuna, occorreva una musica orecchiabile, semplice, gradevole e facilmente memorizzabile: i canti facevano infatti parte sempre più di un rituale ben preciso in campo politico, insieme all’uso di bandiere simboli; nei cortei essi rappresentavano una forma di aggregazione e di appartenenza molto più solida dei discorsi. I fatti che portarono l’inno ad essere musicato da Galli non sono ben chiare: le ricostruzioni sono diverse, complice anche una versione non del tutto attendibile di Luigi Pasquini che probabilmente riferiva parole dell’amico Augusto Massari, allievo del musicista. Galli, in gioventù garibaldino e combattente a Bezzecca, era il critico musicale de Il Secolo, quotidiano milanese di tendenze radicali, democratiche e repubblicane, all’epoca il più diffuso in Italia: infatti, vi scriveva normalmente anche Felice Cavallotti. Lazzari chiese una musica per l’inno allo stesso Galli il quale consegnò una composizione già predisposta per un circolo sportivo che però, dopo poco tempo si sciolse; le note derivavano probabilmente dalla sua precedente esperienza di direttore della Scuola di Musica e della “banda” di Finale Emilia negli anni 1871-1873. È stato detto che l’inno «è una marcia trascinante destinata a sopravvivere ai suoi stessi autori e a diventare, insieme a Bandiera Rossa e a L’internazionale, uno dei tre più significativi inni del movimento operaio italiano […] Il testo possiede uno straordinario impatto evocativo. Guarda al nuovo secolo che si affaccia all’orizzonte come a quello del riscatto: non si tratta di un auspicio ma di una incrollabile certezza […] All’orecchiabilità del brano contribuisce anche la parte musicale di Amintore Galli, la cui passione per le atmosfere bandistiche traspare fin dalla prima nota». Nel 1886, in occasione delle elezioni, c’era, tra il Partito Operaio (antesignano di quello socialista, in cui militavano Turati e Lazzari) e il partito Radicale, una grande rivalità sobillata peraltro da Depretis per ridimensionare quella che veniva chiamata “l’Estrema Sinistra”. Di conseguenza Galli, probabilmente per evitare ripercussioni all’interno del giornale, non volle che fosse nota la paternità della sua musica e ricorse dapprima a uno pseudonimo e successivamente ad un prestanome. Per qualche anno il canto fu suonato abbastanza liberamente: proibito in circostanze pubbliche, veniva tollerato in sedi private. Ciò provocò la sua sempre maggiore diffusione che cominciò a destare preoccupazione negli ambienti delle classi dominanti. Nel 1892 improvvisamente il clima politico cambiò e si inventò l’applicazione del reato di eccitamento all’odio fra le classi sociali contro chi cantava l’inno; lo stesso Turati, dopo aver accennato che la musica era di autore ignoto appartenente a Il Secolo, scrisse «Mezzo milione di reati ad istigazione di un uomo solo – Lettera aperta all’Eccellenza del Procuratore generale della Maestà del re – Milano» nella quale, in qualità di «Autore dell’inno incriminato», denunciava «che i dipendenti Vostri ottennero dal nostro Tribunale […] condanna a quattro mesi di carcere, senza contare la multa, contro un tapino, imputato di averne solfeggiata la sola prima strofa; che a Reggio Emilia, per lo stesso fatto, si ministrano i trimestri di detenzione come biscottini». La persecuzione giudiziaria iniziò implacabile e chiunque cantasse l’inno doveva ricevere una pena di almeno 75 giorni di reclusione oltre ad una multa, non certo leggera per gli operai, di 100 lire. Nel 1894 nel corso di uno dei sequestri degli stampati dell’inno, la polizia verbalizzò che era «dell’avv. Filippo Turati e musicato dal prof. Amintore Galli»: era la prima volta che il nome del musicista appariva ufficialmente. Nel 1898 fu processato anche lo stesso Turati il quale poi disse: «Mi han fatto tanti processi per quei versi come eccitanti all’odio di classe. Dovevano invece condannarmi a morte per incitamento al delitto contro la Poesia». Il clima pesantemente repressivo (Galli fu addirittura costretto dalle autorità a riacquistare alcuni stampati in circolazione) non solo non bloccò la circolazione del canto ma ne favorì il successo e una sua imprevista diffusione a livello nazionale; le cronache di quegli anni contengono numerosi resoconti di processi, a volte con sfumature anche comiche: nelle aule dei tribunali, accusa e difesa a volte battagliavano a gorgheggi per riconoscere se il brano cantato dagli imputati era l’inno dei lavoratori o una canzone più innocente. L’inno divenne esso stesso una bandiera e veniva suonato, oltre che alla fine di ogni congresso socialista, in opposizione alla marcia reale come segno di ribellione. Dopo circa dieci anni si ebbe un nuovo cambiamento nell’atteggiamento dell’autorità giudiziaria e il canto fu perciò tollerato; tuttavia durante la prima guerra mondiale esso fu nuovamente proibito e con il fascismo, i canti socialisti vennero ancora banditi (celebre l’episodio del grammofono che suona l’Internazionale in Amarcord) e Starace ammise solo componimenti che celebravano Mussolini e il regime: per poter intonare il brano si dovette aspettare la liberazione.