E’ in libreria l’ultimo del poeta, volume intitolato “Bestia divina” per La scuola di Pitagora, che rivela la visione di una vita inarrivabile, eternamente inadeguata, come ombra proibita di se stessa.
Di Rosa Frullo
I veri libri di poesia si compongono furiosamente e felicemente in un tedioso mattino d’inverno, sognando Sade e Lautréamont e la musica di Johann Sebastian Bach. Il rapporto tra la parola e l’immagine, o meglio la lotta tra il senso di un’immagine immediata e una metafonia che ne stravolge (sovvertendolo) il profondo significato è un tema forte e ricorrente nella poesia di Mario Fresa e, in particolare, nel suo ultimo, magnifico libro intitolato “Bestia divina” (saggio introduttivo di Andrea Corona, La scuola di Pitagora editrice, 2020). È una poesia intensa e tagliente, quella di Mario Fresa, che mai nega al lettore l’ebbrezza di assaporare l’atroce voluttà dell’esistenza. Fresa si rivela, qui, un abilissimo musicista di parole/note, sorrette e guidate da un insolito equilibrio capace, nondimeno, di condurre a un precipizio senza fondo; un equilibrio misterioso che ci mostra di lontano (stando sempre tra la materia e l’astrazione, tra il sogno e la realtà) la visione di una vita inarrivabile, eternamente inadeguata, come ombra proibita di se stessa. Un’immagine dell’esistenza che nasce drammaticamente dal caos, dal magma silenzioso della mente che percepisce l’unità del “reale” come un codice che può essere decifrato soltanto dalla poesia, che è l’autentica sostanza contenuta nelle cose: “Avete visto com’è spettro e bicchiere, questo corpo? / Quando la noti, si fa destino intero, come stazione in posa: viaggio di lingua e orrendo viso di terrore”. Tale intimità si manifesta in momenti particolari di totale estasi metafonica, come ad esempio nella composizione dal titolo emblematico “Javier” nella quale, già dai versi iniziali, ben si evidenzia il substrato libertario esistenziale dell’autore: “Sono uguali o mi conviene cominciare? / Hanno allarmati pesi: forse un parziale viso quando, / in un eccesso di verità, fanno passare / le voci intere in ospedale. / Il respiro comune perde il bicchiere; la ferita la scuso / come un cosmico libro”. L’alternanza o, se preferite, la lotta tra la consistenza della vita nelle cose appena percepite e lo spazio inviolabile del pensiero è il tema-desiderio che ritorna spesso in questo stupendo poemetto di Fresa, violentemente attraversato da un senso di struggente “eterno ritorno” (per citare un filosofo molto caro all’autore, Friedrich Nietzsche) dove tutto si ripete senza tregua e inesorabilmente. Ma in Mario Fresa, ancor più spesso, si ripete l’ossessione per un certo simbolismo estremo (Sade, Lord Byron, George Best), avvolto nelle suggestioni della pittura di Beato Angelico o di Francisco Goya. E avverti, ancora, in questi versi, il gesto d’una sofferenza esistenziale protratta all’infinito; e il sentore di una vita lungamente bramata, eppure fuggitiva; e un’energia vitale che vive di sé stessa, che lascia il brevissimo spazio di un attimo all’urgenza di palpitare nella rarefatta coscienza delle cose inchiodate, tragicamente, al silenzio, o all’indifferenza di un ineffabile, divino sorriso che assolve infine tutti, senza conoscere nessuno. Nei suoi versi, Mario Fresa ci ha regalato la vita nella sua vera essenza: soprattutto, ci ha donato il coraggio di meditare poeticamente sulla natura umana e sui misteri che la circondano: un invito alla riflessione che è divenuto ormai un atto di libertà dovuto, in questo mondo sempre più virtuale ma sempre meno umano. Fresa ci conduce lentamente all’inesorabile conflitto con il mondo del sogno: uno schiudersi delle tenebre dell’inconscio che in questo caso emette un grido doloroso e vano come quello del Sisifo di Albert Camus che ritrova la sua verità nell’assurdo. E i piani dei sentimenti e delle sensazioni si sovrappongono, si confondono, s’impastano meravigliosamente. Perché se il buio travolge la luce, anche la crudeltà travolge l’estasi. Mentre il mondo delirante cerca di farsi la messa in piega con la psicanalisi, la poesia cerca, senza sosta, imprevedute soluzioni (forse, disperatamente, “umane, troppo umane”?), con occhi rinnovati e sempre rinascenti.