di Alfonso Mauro
Dovessimo per asinina convinzione faziosa o espedienza editorial-socio-politica (me lasso!) indulgere nel capitale e madornale peccato storiografico di porger troppo credulo orecchio alle sirene spiaggiate e cafoncelle del neoborbonismo, non di leggieri riusciremmo a spiegarci sia la verdiana trattativa sfumata con il Massimo Partenopeo per la produzione di una prima assoluta dell’opera tratta da Hugo (ma abortita dalle cautele borghesi dei copyrights, e dalle fisime chiesastiche, realiste, insomma bigotte del nostrano mondo culturale dell’epoca), sia la successiva volgare, traviata, fallimentare, imbecille, frankensteiniana censurata versio che trasformò Rigoletto, nella sua prima (primina) napoletana, in “Clara di Perth” — e con un libretto tanto candeggiato e vivisezionato ad uso dell’ignobile e religioso perbenismo borbonico da corrompere un’opera di Genio (Hugo + Verdi + Piave) in un’inauditamente reazionaria e sconclusionata suo-malgrado ridicola insensatezza. Il libretto è su Google. Qualche esempio su tutti: la celeberrima canzonaccia “La donna è mobile” diventa un risibile inno all’amor fedele “Benché sorrìdami / l’età festante, / d’amor costante / voglio goder”; e, nel quartetto della seduzione di Maddalena, il Duca (qui carneade Enrico di Rotsay) si fa invece perorante il casto amore d’un altro. Alla fine Gilda (Clara) resuscita, col padre che osanna la “clemenza del Cielo” sulle invece drammatiche ultime battute verdiane. Insomma un’obbrobriosa schifezza sesquipedale riscaldata in salsa di pummarola ‘ncoppa conservatrice; …non male per quella che un’infilata di idioti pennivendoli spacciano a ignaro pubblico come “la terza Potenza mondiale” ottocentesca. Anche la censura asburgica alla Fenice non scherzava, ovviamente, né quella francese di vent’anni prima col dramma; ma almeno a Venezia l’opera si diede — e bene! Ciò per ribadire che l’aderenza al libretto comporta delle non secondarie affatto ricadute, sia nello Zeitgeist che nella contingente qualità registica di ogni ri-produzione. Onde le dolenti note del Rigoletto salernitano, all’interno del 150° del Verdi d’Irno; di cui quivi tralasciamo il test acufenico sul radar delle cui intenzioni madama qualità vocale volava inafferratissima come un velivolo stealth, disturbato anzi dalle turbolenze ormai celeberrime e sé-teatralizzanti (nonché curiosamente approvate) della direzione che a ruggiti e mugugni ha non solo soggiunto, ille secrita a bboce, le didascalie musicali ad uso della fossa, ma anche accompagnato ugole e ugoline in veri e propri duetti kafkiani da far spaurire la Quarta Parete. Ma veniamo al dunque scenico. Le grandi occasioni che sciacquano i panni in Irno (gli abiti buoni borghesi, c’est à dire) sanno altrove farsi valere — rammentiamo un fantastico Nucci vestire la giubba triboulettiana nel Bicentenario Verdiano nell’aprile del Massimo Salernitano. 2013. Illo tempore. Ma stavolta, per intonarla con Piave “restiam scornati / ad imprecar”. In (ahinoi non esaustivo) ordine scenico-cronologico, alcuni momenti registici, ideati da Massimo Gasparon, che decidono prendere a sberle la suspension of disbelief: la maledizione — i cortigiani accusano Monterone, non Rigoletto, d’aver turbato la festa! s’apra il libretto, perdio!; se il duca sta d’eccessivo gigionesco soppiatto lungo buona parte del duetto padre-figlia, il suo (come da spartito) successivo stupirsi del rapporto genitoriale tra la sua preda e il suo buffone perde assolutamente di senso, susseguente com’è a tanto pregresso origliare; “studente sono e povero” profferisce mendace il duca, ma il costumista ce lo schiatta in scena in sfarzo d’abiti sontuosissimi, stivaloni lucidati, e brillocchi d’ogni genere — ammaliare con ricchezza il pubblico va bene solo quando ciò non cozzi con quanto avviene in scena… l’abc, proprio…; durante il rapimento di Gilda, Rigoletto (fatto sordo e cieco) sta sì come il fesso, ma la scala che regge dovrebbe essere usata dai cortigiani onde introdursi al pian di sopra, altrimenti s’insospettirebbe — o no? o ci insospettiremmo noi a vederla mero ammennicolo, poggiata alla parete; quando Rigoletto affronta i rapitori “vil razza dannata”, irrompe in scena tutto il dramma dell’emarginazione soccombente al sopruso dei potenti ma che crede farsi titanica; e come soleva Verdi insistere sulla laconica “parola scenica” a noi verrebbe insistere su d’una laconica “visione scenica”, protestando l’horror vacui che ha sullo sfondo appollaiato oche bellocce, pleonastiche figuranti affettate memori delle indossatrici o delle vallette accarezzanti materassi nelle televendite televisive — a che diamine occorrevano? a nulla, a distrarre dal dramma che si disvela. Eccetera. Per carità, sempre men peggio delle produzioni cosiddette “di ricerca” sulle quali troppo radi si stendono i pietosi veli dei fischi; ma alle opulente produzioni in costume che dunque si prefiggano una certa aderenza al “vero” (assai d’uopo le virgolette) è forza prestare somma attenzione a queste minuzie costumistiche, coreografiche, scenografiche infranto un certo numero delle quali il pubblico fatica ad empatizzare con atmosfera e vicenda, e credibilità delle stesse. Le qual cose dette, e non senza una facella di melomanistica presunzione, non resta che allentare la pressione sulla diga della sopportabilità riversando sfogo d’approvazione sui già citati Golfo Mistico e Bacchetta, trionfatori tra troppo trita tribolazione triboulettiana altrimenti tramutabile in tripudio tragicommedico. Trac. Victor Hugo fu notoriamente in non amichevoli termini con la musicazione dei suoi pezzi teatrali; ma ci è grato credere che, fosse stato presente, il re si sarebbe divertito tutto sommato — e noi inguaribili melomani con esso, à rigoler.