Si è chiusa la II edizione di Mutaverso tra gli applausi alle scelte di Vincenzo Albano, il quale ha già cominciato a lavorare per il cartellone 2018
Di Gemma Criscuoli
Comunicare quella che si crede la verità su se stessi e sugli altri? Nulla di più difficile e lacerante. E resistere alla tentazione di essere un copione scritto da chi ci attornia non è certo più facile. Su questa linea si è mossa la seconda stagione teatrale di Mutaverso, che ha avuto in Vincenzo Albano il suo direttore artistico ed è giunta alla sua coerente conclusione con “Illusioni” di Ivan Vyrypaev, prodotto da Big Action Money su traduzione e regia di Teodoro Bonci del Bene, applaudito alla Sala Pasolini. Che i quattro interpreti (lo stesso Del Bene, Carolina Cangini, Tamara Balducci, Jacopo Trebbi) parlino inizialmente alla platea mescolati ad essa è naturale: non possiamo mai conoscere davvero la persona al nostro fianco, non sappiamo quale visione della vita metterà in scena per noi da qui a un attimo. I protagonisti sono gli sposi Sandra e Danny (lei alla ricerca di un senso, lui, come si dice, incapace di mentire proprio perché tutti mentono) e i coniugi Albert, il miglior amico immaginabile, e Margareth, donna dal grande senso dell’umorismo. È però la vita stessa a possederlo, se la confessione più bella che si possa ascoltare (Danny in punto di morte ringrazia la moglie per l’amore e la vita insieme “senza nulla da nascondere”) innesca un effetto domino che travolge tutto. Sandra ammette dinanzi ad Albert di averlo sempre amato, quest’ultimo rivela alla moglie di aver sperimentato l’amore vero solo con Sandra, sia pur senza uscire allo scoperto, e Margareth ribatte di essere stata l’amante di Danny per anni. Poiché gli esseri umani sono un ostinato anagramma, sono offerte anche informazioni distorte sui personaggi, come interferenze che impediscono una chiara ricezione. Sensazioni e ricordi non si preoccupano di una continuità logica, al punto che lo spettatore è portato a credere con Sandra che la vita sia fatta di “schegge colorate”, cha al nostro mondo manchi “qualcosa di compatto”. I quattro cercano invano un proprio centro e nel continuo interrogarsi sulla natura dell’amore scontano la propria sincerità, perché non hanno saputo giocare la partita del tempo: le rivelazioni infatti avvengono al tramonto della loro vita. Quando Albert dirà quella che ci viene presentata come la versione attendibile dei fatti, darà scacco a se stesso, perché capirà troppo tardi di aver amato solo sua moglie, mentre Sandra, sola due volte dinanzi agli uomini a cui si è legata, morirà nell’amarezza. La relazione tra Margareth e Danny viene connotata come una menzogna per contrastare il dolore causato da Albert, ma poiché le parole non liberano dai propri miraggi, la compagna di Albert, ormai incapace di distinguere qualcosa che duri in eterno, si impiccherà. In tempi non sospetti si era nascosta per gioco in un armadio che solo lei poteva aprire: allo stesso modo, solo lei avrebbe potuto affrontare fino in fondo ciò che aveva dentro, ma nulla resiste in un mondo duro per chi voglia attraversarlo e Albert morirà nella stessa solitudine. Gli spettacoli precedenti si sono misurati con la stessa fatica di aprirsi all’altro: la comunicazione falsata con lo straniero in “HO.ME”, il solipsismo ingombrante di “It’s app to you”, l’inutile bagaglio espressivo degli anni Ottanta in “Garwalf”, l’alienazione come cifra dell’essere in “Esilio”, il non detto umiliante del passato in “Acqua di colonia”, l’incomunicabilità tra arte e vita ne “Il paradiso degli idioti”, la nostalgia della condivisione in “E’la pioggia che va”, i desideri incatenati del progetto “Demoni”. Il teatro, del resto, non può che aprire la nostra mente su ciò che non vorremmo vedere né ascoltare.