di Roberto De Luca
Come già avvenuto in occasione delle elezioni politiche del 2018, anche in questa tornata elettorale sta tornando di moda una delle proposte “di bandiera” di alcuni schieramenti politici, vale a dire la “flat tax”.
Ora come allora, si sono levate le proteste di altri partiti in nome della progressività del sistema fiscale sancita dall’art. 53 della costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”), che stabilisce un principio di buon senso ed equità.
Rispetto al clamore mediatico creato intorno a tale proposta, vale la pena evidenziare come le flat tax del nostro impianto tributario siano già numerose (e quasi nessuna ha destato polemiche o proteste).
Già il Governo Monti introdusse il “regime dei minimi”, confluito nell’attuale “regime forfettario”, che prevede un’imposta sostitutiva fissa (con l’applicazione di coefficienti di redditività in base al settore) per soggetti con fatturato non superiore a 65.000 euro. Pur con tutti i limiti, per i contribuenti interessati (che spesso devono anche pagarsi i contributi da soli e non godono della maggior parte delle detrazioni), la misura ha rappresentato – soprattutto in tempi di crisi – una importante boccata di ossigeno. Secondo i dati MEF, nel primo trimestre 2022, infatti, la percentuale di nuove partite IVA che hanno optato per il regime forfettario è ancora in crescita rispetto al passato (53,4%, in aumento di quasi il 10%).
Un’altra delle più diffuse “tasse piatte” in vigore è la cedolare secca, che consente di pagare una mera imposta sostitutiva sugli affitti percepiti per determinate tipologie di immobili, senza che gli stessi rientrino nel cumulo del reddito ai fini IRPEF. Pur riconoscendo alla misura il merito di aver contribuito a una parziale emersione del nero, è innegabile che, dal punto di vista concettuale, si tratti di un meccanismo che privilegia la rendita, tassata meno della maggior parte dei redditi da lavoro. Ovviamente, in un paese con un’elevata percentuale di proprietari, un meccanismo del genere crea consenso (nel 2020 l’opzione è stata scelta da oltre 2,6 milioni di contribuenti e ha generato imponibile per oltre 17 miliardi) e, dal momento della sua introduzione (ormai più di 10 anni fa), raramente è stata contestata o oggetto di accesi dibattiti politici.
Cosa dire poi della tassazione delle rendite finanziarie? Anche in questo caso, sono soggette a imposta sostitutiva fissa, che agisce allo stesso modo per l’impiegato, il piccolo professionista, il pensionato o il super-manager. E’ vero che, anche a supporto di questa misura, possono essere addotte motivazioni di competitività del sistema finanziario e del mercato dei capitali ma, ancora una volta, una tassazione che privilegia la rendita rispetto al lavoro e alla produzione non ha destato scalpore (nella scorsa legislatura il “dossier” relativo a questi argomenti è stato riaperto ma senza giungere a modifiche sostanziali).
Se riflettiamo in maniera più approfondita, poi, si potrebbe evidenziare come anche gran parte della giungla del nostro sistema di detrazioni (spese mediche, interessi per mutui, ecc.) funzioni in maniera piatta, consentendo un vantaggio fiscale calcolato su un’aliquota fissa. Inoltre, giova sottolineare come, anche in un sistema a scaglioni come quello attuale, chi guadagna 100.000 euro sconta la stessa aliquota di chi guadagna un milione, cosa che farebbe storcere la bocca ai “puristi” della progressività.
In ultimo, una considerazione che raramente trova spazio nel dibattito pubblico. L’art. 53 si applica solo alle persone fisiche o stabilisce un principio generale da applicare all’intero sistema fiscale? Non è forse un meccanismo “piatto” quello che grava anche sulle società di capitali, che porta la piccola impresa familiare a pagare in base alla stessa aliquota di quella da milioni di fatturato? In alcuni paesi, per evitare una simile distorsione, è prevista una tassazione basata su aliquote diversificate e progressive anche per le imprese.
Tali esempi ci portano a concludere che, verosimilmente, anche rispetto alla flat tax ci troviamo finora di fronte a un dibattito più ideologico che pratico. Da un lato, i detrattori della misura in nome dell’equità e della progressività dimenticano come siano già presenti numerosi meccanismi che non le perseguono e non sono stati mai modificati. Dall’altro, chi propone la sua estensione a tutti i contribuenti dovrebbe fornire maggiori dettagli agli elettori, in termini di aliquota da applicare, impatto sul bilancio dello Stato, reperimento delle risorse ed eventuali effetti espansivi sull’economia.
In mancanza di questi elementi, ancora una volta, si ragionerà in termini di “tifoserie” e non di merito o di reali conseguenze delle proposte per le imprese e le famiglie.