Il week-end teatrale salernitano è stato illuminato dalla rilettura di buona parte delle “Operette Morali di Giacomo Leopardi da parte di Mario Martone, della Compagnia del Teatro Stabile di Torino, con la scenografia di Mimmo Paladino. Oltre ad aver eseguito una selezione delle opere il lavoro si è concentrato soprattutto nel limare un componimento che già di per sé si presentava in forma drammatica. Inoltre lo stesso Leopardi era riuscito a dare una linea ironica e leggera ai suoi dialoghi, necessaria per la messinscena, nonostante i temi esistenziali che andava trattando: una strategia non certo inventata da lui quella di trasmettere pensieri profondi e astratti attraverso racconti mitologici, accessibili alla comprensione anche di un pubblico meno colto. Si tocca con mano in questo florilegio il superamento del pessimismo “cosmico”, attraverso la attiva, vibrante denuncia di Leopardi delle false ideologie, delle illusioni sociali, dei mali e delle oppressioni che gli uomini caricano sull’infelicità naturale. Il carattere radicale ed estremistico della sua esperienza, la sua volontà di interrogare fino in fondo il senso dell’esistenza umana, il suo conseguente pessimismo, lo avvicinano d’altra parte ad alcuni dei grandi romantici europei, da cui però lo allontana il suo rifiuto di ogni immersione nell’oscurità e nell’irrazionalità: nel guardare nel modo più “negativo” alla condizione dell’uomo Leopardi mantiene fino in fondo quella volontà di conoscenza, quella ricerca di oggettività, che respinge ogni mitizzazione ed esaltazione del “negativo”. I dialoghi riproposti nello spettacolo hanno una forte valenza comunicativa, tant’è che risulta vincente la scelta di dare maggiore spazio alla parola degli attori, piuttosto che alla scenografia, la cui presenza risulta tuttavia incisiva nel ricostruire un’atmosfera immaginifica e visionaria, in empatia con l’estetica di Martone, da parte di Mimmo Paladino: la terra e la luna parlanti, dove felicemente Leopardi adatta al suo disegno la favola ariostea del senno umano ricoverato sul satellite, facendone risultare questa nuova impressione che, in fondo, quel benedetto senno gli uomini non l’hanno avuto mai, l’allusione ai suoi Dormienti, per il dialogo di Ruysch, la grande scultura abitata da Madre Natura per l’incontro con l’Islandese, la vela di Cristoforo Colombo declinata con personalissime varianti di simboli, facenti parte della propria cultura e del proprio vissuto. Figure essenziali, arricchite dalla presenza di dettagli e particolari, diventano presenze vive nel momento in cui indicano un cammino di riflessione entro il quale ogni individuo può ritrovare il proprio personale itinerario. La rappresentazione affascina e diverte, grazie soprattutto alla recitazione, e vincente è il genio leopardiano, dalla sua lingua alle sue finzioni come quella appunto del dialogo di Ruysch, con quel quarto d’ora appena bastato alla dimostrazione della morte senza dolore e quando avrebbe dovuto incominciar l’altra del sopravvivere dello spirito esso finisce e tutto ritorna silenzio e notte eterna. Gli attori hanno rivestito ognuno più di un ruolo: se Paolo Graziosi ha esaltato la vecchia scuola di dizione, pur non gestendo a pieno qualche vuoto di memoria, nella “Storia del genere umano”, Renato Carpentieri, è stato un perfetto Atlante ed un eccellente filosofo Plotino, rilevanti in scena anche Iaia Forte, la ricordiamo tra le altre in una seducente ed energica Moda, Paolo Musio, ha evocato il profetico grido disperato del Gallo Silvestre, Giovanni Ludeno, ottima spalla in più di un’occasione (Ercole, venditore di Almanacchi, il genio di Tasso, Momo). Applausi scroscianti per l’intera compagnia, mentre il pensiero va alla visone futura di un teatro Verdi affollato di giovani studenti delle scuole superiori, dei licei, che non ammainano la vela in questo momento di tempesta, ma strappano quel velo di Maya per oltrepassare la rappresentazione, impattare la realtà vera, sulla quale l’uomo deve continuamente interrogarsi, per cambiarla.
Olga Chieffi