La Traviata: in my solitude - Le Cronache Spettacolo e Cultura

di Olga Chieffi

Debutto indoor per Giandomenico Vaccari, che torna da regista al teatro Verdi di Salerno per La Traviata, titolo di chiusura della stagione lirica del massimo cittadino. Questa presentazione è stato l’argomento principe dello scintillante incontro augurale, con tanto di brindisi che ha salutato protagonisti Francesco Aliberti, Paolo e Danilo Gloriante e Francesca Napoletano, con il Sindaco Vincenzo Napoli e il Maestro Antonio Marzullo, i quali hanno espresso la loro soddisfazione per quanto sta avvenendo in teatro con l’accorsato cartellone allestito per le feste “Musica d’artista”, che sta registrando praticamente il sold out per ogni spettacolo. Giandomenico Vaccari farà de’ La Traviata di Giuseppe Verdi, che avrà le scene di Alfredo Troisi e la direzione musicale di Daniel Oren, che si troverà alla testa dell’Orchestra Filarmonica Verdi e del coro preparato da Francesco Aliberti, un dramma psicologico, non più morte per tisi, ma per follia, riprendendo un tema, sempre presente nel mondo dello spettacolo dall’antica Grecia, al medioevo con la “festa dei folli” alla Commedia dell’arte, sino al grande teatro moderno e contemporaneo, per la prosa. Nel melodramma, nel Seicento prende corpo, invece, la cosiddetta “gran scena”, nella quale un cantante o una cantante deve confrontarsi con l’esecuzione di un’aria musicalmente molto elaborata, in cui è necessario dare prova delle proprie risorse vocali e capacità interpretative. Il massimo della drammaticità si raggiunge proprio nel corso del Romanticismo, quando s’invoca la piena libertà personale e creativa dell’artista, si rivaluta l’inconscio come sede delle idee e delle immagini più riposte da cui saper trarre l’ispirazione, riuscendo a percepire tutto quello che poteva sfuggire alle facoltà coscienti: trionfo delle passioni, l’esaltazione del sentimento che riesce ad avvicinarsi all’Assoluto, e che si propone di cogliere quegli aspetti della realtà dinanzi ai quali la ragione è destinata a fallire. Violetta, che avrà la doppia voce di Irina Lungu per la prima e la replica del 28 e di Gilda Fiume il 27, verrà avvicinata, quindi, all’Amina e all’Elvira belliniana, e alla Lucia o alla Linda donizettiana, in preda ad una pesante depressione, per la quale la pazzia è un incubo che perseguita persino nel sonno, paura e ossessione, sfogo e catarsi. Sopraffatta dalla fragilità della propria psiche, Violetta rivivrà una specie di flash-back che rappresenta il suo inesorabile cammino verso la morte. Violetta sarà una donna psicologicamente distrutta, in preda all’ansia e alla tristezza, per cui la triste aria “Addio del passato”, non a caso introdotta dall’oboe, suono evocativo e, in questo caso, della dionisiaca follia, diventa un doloroso annuncio di morte. Saremo nell’Italia di inizio Novecento, egrette, lunghi fili di perle e frange, tacchi a rocchetto, una cornice sul liberty della Belle Epoque, che ricordiamo già oggetto della regia firmata da Enrico Stinchelli, nel 2012, un periodo gioioso, che introduceva alle scoperte del secolo breve, come la luce elettrica, caratterizzato dalla joie de vivre, ma la cui borghesia nascente, il demi-monde, calpestava un pavimento pronto a crollare sotto i colpi dei cannoni della prima guerra mondiale. Ma, più ingialliscono le pagine dello spartito di Traviata e più forte penetra e affonda il loro profumo nella nostra memoria. Il suo terzo atto, l’immagine della morte di Violetta, annunciata sin dal primo preludio, spezza anche i cuori di pietra, lacrime, preziose lacrime, pioveranno sinceramente ad ogni sua rappresentazione, sugli amori consunti di Alfredo e Violetta, fino alla fine dei tempi. Il preludio dell’ultimo atto è racchiuso interamente nella parola sottile. Sottile, nel senso latino di gracilis, exilis, stavolta mentale: la sentenza di morte è pronunciata dal primo violino solo, che nelle sue lente volute, ora ascendenti, ora discendenti, esprime la poesia della stanchezza e dello smarrimento, la vanità di ogni speranza nel futuro e un rimpianto desolato della vita che si dilegua. Chi avrebbe potuto pensare ch’era in potere della musica di realizzare l’ambiente d’una camera tutta chiusa, verso l’alba d’inverno, dove si veglia un malato, prima che fosse scritto questo preludio? Tutto dice l’inutilità di ogni rimedio e di ogni sforzo contro l’ineluttabile destino che incalza. I ricordi dei momenti felici della passione non sono che dolori lancinanti per la morente; mentre Violetta scorre con gli occhi la lettera di Giorgio Germont, ruolo affidato a Simone Piazzola, annunziante il prossimo, ma ormai tardivo ritorno di Alfredo, nel cui ruolo torna Valentin Dytiuk, l’orchestra riprende uno dei temi più intensi del primo atto “Di quell’amor ch’è palpito”, in pianissimo, creando così il senso di una distanza irrevocabile, di una impossibile reintegrazione del passato. L’arte brucia l’istante e Verdi in questa scena riesce a fermare il tempo, nell’attesa di un evento tanto doloroso e sublime. La massima concentrazione è raggiunta dall’Andante mosso “Addio, del passato…”. L’aria, quasi arioso, è trattata con molta libertà e va per accenni sul sentiero dei ricordi, verso l’oblio ultimo, con frasi interrotte da musica che fu. E’ l’inno dimesso, crudele e lapidario alla vita negata. Alfredo si potrà concedere solo il dolce e innocuo sollievo della pietà per la morente e del rifugio campestre “Parigi, o cara, noi lasceremo….”, non il rischio della passione. Le ultime pagine di Traviata sono una luce che si spegne, lenta e inesorabile, un’ombra che scende fatalmente ed è nelle parole di Violetta: “Ma se tornando, non m’hai salvato”, otto battute di recitativo che per la loro forza drammatica contano più di un’aria. Non c’è il grido, nemmeno nell’ultima ribellione alla morte, nemmeno nell’impetuoso, “Gran Dio! Morir si giovine!”, ma solo l’ineluttabile e la cupa rassegnazione. Violetta dona ad Alfredo il suo ritratto, da consegnare come regalo di nozze alla futura pudica vergine, specificando che c’è chi prega per loro in cielo – vendetta efferata! Che almeno tenga rimorso! Ma la vita continua “Tutta Parigi impazza, è Carnevale!”. Nel salotto di Flora Bervoix (Alessandra Della Croce) ritornano come nel primo atto Gastone (Vincenzo Peroni), il barone Duphol (Angelo Nardinocchi), un Marchese d’Obigny d’eccezione, Costantino Finucci e ancora Il dottor Grenvil, Carlo Striuli, mentre a completare il cast, l’Annina di Miriam Artiaco, il Giuseppe di Paolo Gloriante e il domestico di Antonio De Rosa. Il balletto avrà un ruolo ben preciso, con le coreografie di Luigi Ferrone e le étoile ospiti, Alessandro Macario e Giorgia Giammona, quello di accompagnare ed essere specchio di queste visioni, durante l’intera opera. Si ode negli echi sonnolenti che alleggeriscono l’aria, fruscii soffici e spenti d’un corpo che si spoglia, gli abiti sono ormai per terra; resta il gemito d’una voce buia e bagnata di pianto, tra un basso e sontuoso volo: Violetta cadrà sull’etereo suono del violino che ricorda la prima frase d’Alfredo, chiudendo quest’opera che è pura follia d’amore.

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