di Vito Leso
Alle tre del mattino del 3 marzo 1944, Luigi Quaratino, telegrafista di turno a Potenza, trascrive un dispaccio: “Treno 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso”. Sono le prime vaghe notizie del più grave disastro ferroviario nella storia d’Italia. A ottant’anni di distanza, quella vicenda riemerge dagli ultimi confusi mesi della Seconda guerra mondiale, con l’Italia spaccata in due: da una parte il Regno del Sud liberato dagli Alleati, dall’altra la Repubblica di Salò controllata dai nazifascisti. Teatro del dramma è l’unica linea ferroviaria che da Napoli conduceva in Basilicata, terminando la sua corsa a Bari. Il 2 marzo il treno 8015 lascia la stazione del capoluogo partenopeo diretto a Potenza. Alla stazione di Battipaglia cambia identificativo in 8017. Il convoglio ferroviario era costituito da 47 vagoni, trainati da due locomotive a carbone, destinato ai rifornimenti merci degli angloamericani al fronte. Durante il viaggio di andata, nessuno sarebbe dovuto salire a bordo ma nelle stazioni intermedie di Nocera, Salerno e soprattutto Battipaglia il treno fu preso d’assalto da passeggeri, carichi di prodotti da barattare alla borsa nera: caffè, sigari, medicine da scambiare nei paesi lucani con zucchero, farina, pane e carne. Il treno si riempì di persone e mercanzie che occuparono ogni spazio disponibile, raggiungendo un peso stimato di oltre 500 tonnellate. Soltanto a Eboli salirono cento persone. Alla stazione di Romagnano i passeggeri diventarono più di 600. Il treno proseguì la sua marcia verso Potenza percorrendo una delle tratte più isolate e impervie della Penisola tra monti, torrenti e gallerie. La linea non era elettrificata e non lo sarebbe stata per un altro mezzo secolo. Entrambe le locomotive, posizionate in testa al treno, arrancavano anche per la pessima qualità del carbone di produzione iugoslava, molto economico e impiegato dagli Alleati per risparmiare, che sprigionava monossido di carbonio e forniva meno potenza ai motori. Poco dopo la mezzanotte, il treno supera la piccola stazione di Balvano ed entra nella galleria “Delle Armi”, rallentando per dare la precedenza ad un altro treno che si era lasciato alle spalle ulteriori gas velenosi. La salita, con una pendenza massima del 13 per cento, e il peso eccessivo determinarono l’arresto nel tunnel lungo oltre un chilometro. Dalle locomotive si sprigionò una densa cortina di fumo e i passeggeri iniziano a respirare a fatica. I due macchinisti cercano di raggiungere l’uscita dal lungo cunicolo senza riuscirvi, anche a causa dei binari umidi e forse per un’incomprensione, attivando erroneamente un senso di marcia opposto, come riferirà l’unico fuochista sfuggito alla tragedia. I primi a morire furono, probabilmente, gli stessi macchinisti. Non si salvò neanche il frenatore Gaetano Sgroia di Eboli. La maggior parte dei passeggeri morì intossicata dal gas rilasciato dalle locomotive; molti nel sonno, senza quasi accorgersene. Altri, cercando una via di fuga fuori dalle carrozze, vennero calpestati dagli altri passeggeri. La macchina dei soccorsi si mise in moto solo all’alba e il convoglio venne trascinato fino alla stazione di Balvano-Ricigliano dove i corpi esanimi dei passeggeri furono disposti lungo la banchina. Fu l’agenzia Reuters a diffondere per prima la notizia. Il Corriere della Sera parlò di “500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale”. Nel verbale del Consiglio dei ministri riunito a Salerno, allora capitale del Regno del Sud dopo l’armistizio dell’8 settembre, si parlò di 517 morti e si leggeva: “
Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all’infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo” indicando come causa principale dell’incidente la pessima qualità di carbone fornito dagli Alleati. Gli Angloamericani disposero un’inchiesta che il Military Railway Service affidò a cinque ufficiali. Due giorni di lavoro con rapidi interrogatori a superstiti e personale ferroviario, resi difficili dall’incomprensione fra le lingue diverse: “Avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità”, furono le conclusioni. Il 23 marzo, il Corriere di Salerno parlò di morti per asfissia da acido carbonico “straordinariamente velenoso” e definì la tragedia “caso di forza maggiore” in quanto gran parte di quei viaggiatori non avrebbero dovuto essere sul treno. Partì poi un’altra inchiesta, autonoma, del sindaco di Balvano ma fu bloccata dagli Alleati. Nel 1951, scriverà la rivista americana Time: “Il governo alleato si sforzò di occultare l’incidente per evitare l’effetto deprimente sul morale degli Italiani”; una sorta di insabbiamento giustificato da un fine nobile. Il quel contesto storico-politico precario, la notizia fu strumentalizzata da più parti. Di certo, il traffico ferroviario al Sud era totalmente controllato dal Military Railway Service alleato e i risultati dell’inchiesta angloamericana non furono mai resi noti. Il governo Badoglio, da parte sua, individuò tre facili capri espiatori: il capostazione di Battipaglia, per non aver impedito che passeggeri clandestini salissero sul treno merci, e i dirigenti delle stazioni di Balvano e Bella-Muro, per non aver accertato la posizione del treno partito da una stazione e non giunto in orario nella successiva. Persino il numero dei morti rimase incerto, con documenti contrastanti. Alla fine, una lapide scolpita nel cimitero di Balvano conta 509 morti, 408 uomini e 101 donne, molti dei quali non vennero neanche identificati. Nei primi anni Cinquanta, ad alcune famiglie delle vittime fu riconosciuto un misero indennizzo di 320mila lire a titolo di risarcimento. Solo anni dopo l’Italia intera conobbe questa immane tragedia che colpì tanta povera gente, assiepata tra le feritoie della guerra, su un treno in cerca di pane per sopravvivere alla miseria determinata dal conflitto mondiale e che non fece più ritorno a casa.