Rino Mele
Matteo – ma anche Luca – ne parla: “Entrate dalla porta stretta, perché la via che conduce alla perdizione è una porta ampia e larga, e sono molti quelli che vi entrano”. “Angusta porta” dice il latino, ed è la porta attraverso la quale, solo soffrendo, possiamo entrare: “angusta” è un aggettivo che deriva dal verbo àngere, che significa stringere, tormentare. Non è solo una metafora del passaggio verso la salvezza ma, come facilmente s’intuisce, anche una definizione realistica che grida verso di noi chiedendoci di scegliere il sentiero scosceso se vogliamo raggiungere ciò che pur diciamo di cercare.
Illusivi i piaceri e sono ingannevoli, dice il Vangelo, portano fuori strada, verso botri insidiosi, l’acqua paludosa che all’improvviso sommerge, ma il cammino verso la salvezza non è facile, è ferocemente aspro, stretto.
San Matteo è amato dai salernitani ma quasi soltanto nelle sue fugaci rappresentazioni: la processione (che incanta i vanitosi politici), la fiera (che seduce i bambini), altri rituali incontri civili e religiosi, e celebrazioni, e tradizionali cerimonie: fino agli anni Cinquanta, il 21 settembre è stato il natale nascosto dei salernitani, poi è velocemente scomparso dall’attesa dei pescatori, del popolo concreto, dei malati, dei poveri e, un po’ alla volta, ne è svanita anche la nostalgia, le mani che si stringevano festose.
È rimasta la curiosità e, come per un lontano parente importante, l’amore per questo grande personaggio, l’ansia di ripercorrerne la gloria come – su questo stesso giornale – ogni anno l’attenta sequenza critica che Olga Chieffi cura e mette insieme.
Ma, nel nostro difficile irragionevole vivere quotidiano le porte di San Matteo non ci sono più.
Torniamo al passo del settimo capitolo del suo Vangelo in cui Matteo parla della “porta stretta”: Gesù alza la sua limpida voce e dà necessari precetti ai discepoli e a coloro che s’affannano nel seguirlo, consapevoli dell’acerba difficoltà di trasformare in quotidiana azione le sue parole, luminose come il fuoco, e come il fuoco capaci di bruciare: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le zampe e voltandosi vi sbranino”.
Il Vangelo impaura, noi lo leggiamo male come una specie di “Cuore” di De Amicis: invece è un libro che, senza sotterfugi, mostra la tragedia di vivere e ci chiede una responsabilità che non sappiamo accettare.
Nel Vangelo di Luca il brano sulla porta stretta (13, 22-30) termina apocalitticamente: coloro che resteranno fuori da quella porta dopo che sarà stata chiusa, tenteranno invano di entrare. Il Signore dirà loro e lo ripeterà: “Non so di dove siete”: “Qui sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo e Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio. E voi cacciati fuori”.
Mi piace, oggi 21 settembre 2023, immaginare San Matteo sul mare di Salerno, davanti a una stretta porta d’aria come una luce, che s’apra e permetta un angusto passaggio, difficile e necessario. Chi oserebbe avvicinarsi ad essa con la coscienza e la forza di poter entrare?
(Matthias Grünewald, “Resurezione”, Altare di Isenheim, polittico, olio su tavola 1516. Per comprendere la meraviglia inesprimibile della macchina dell’altare di Isenheim, leggiamo Giovanni Reale, 2006: “Il pannello centrale della prima pagina del polittico si apriva alla maniera di due ante, facendo apparire un secondo pannello, mentre con il retro di ciascuna metà del primo pannello si formavano le ante del secondo pannello(…). A sua volta, anche il pannello centrale della seconda pagina si apriva in due metà”)