Di Olga Chieffi
Baffi a manubrio, sguardo bonario, colorito olivastro era il gigante buono di Capaccio, Berardino Chieffi, il farmacista. Nato nell’ottobre del 1851 da Raffele e Maddalena Verrioli, Berardino, appena laureato, aveva aperto la farmacia sotto la sua casa, che affacciava sull’attuale villa comunale. Nella grande casa, viveva con la sua sposa, Francesca Rizzo, Donna Checchina, di Castel San Lorenzo, donna di rara intelligenza, dedita alle lettere, all’arte e alla cura delle proprietà. Da questo felicissimo matrimonio nacquero quattro maschi, Umberto, critico letterario, Alfredo e Raffele, pittori, epigoni della grande scuola napoletana, ma con un occhio al realismo, scomparsi non ancora trentenni e Italo, medico, del quale sono la nipote. Della farmacia del mio bisnonno, non posso che parlare attraverso i ricordi di mio padre Berardino, figlio di Italo, il quale aveva appena quattro anni quando l’anziano farmacista morì. Ma i ricordi di un bambino sono nitidissimi e mio padre racconta che, quando la sua famiglia si muoveva per andare a Capaccio, la bottiglia di vino “particolare” era riservata unicamente a nonno e nipotino e al momento dei saluti, una grossa e unica moneta d’argento di dieci lire era posta tra le mani del piccolo Berardino, invidioso dei sacchetti ricolmi di monetine donati alle sorelle Franca e Mary. La farmacia aveva una mobilia sobria e severa: alti scaffali ove prendevano posto i vasi di farmacia, tutti alborelli di ceramica vietrese del ‘700, con effigie di sirene, scene bucoliche, paesaggi, di cui una quindicina, insieme ad innumerevoli contenitori di cristallo, qualche boccetta di veleno, droghe e spezie, le bilancine e i libri di chimica sono conservati gelosamente in casa mia; l’enorme bancone di legno, sovrastato da un’unica pesantissima lastra di marmo, ove prendeva posto nonno Berardino, per “preparare” i rimedi dell’epoca, le cui basi erano le erbe, che coltivava anche personalmente nell’orto alle spalle della casa, in un suo esclusivo rapporto con la physis, che lo circondava e lo proteggeva come un “recinto” simbolo eterno di conservazione e rigenerazione. Si sa, la farmacia di un paese è anche punto di ritrovo e intorno al bancone di Berardino, tra il profumo penetrante e stordente delle spezie, suo figlio Italo, comunista militante, a Livorno, quel 21 gennaio del 1921, al seguito di Amedeo Bordiga, e anima illuminata della sinistra salernitana, organizzava le prime sommosse contadine della piana del Sele, mentre il fratello Umberto studiava la prima traduzione italiana delle opere di Friedrich Nietzsche. Con la scomparsa del nonno Berardino la grande casa di Capaccio, sovrastata da un meraviglioso belvedere a getto sulla piana paestana venne chiusa ma, la famiglia Chieffi vi si ritrovò “sfollata” nel corso del secondo conflitto mondiale. La guerra andò a infrangere la vita ordinata e civile di Salerno, una “piccola città fatta a misura d’uomo”, per usare le parole di Lello Cantarella, colui il quale, un giorno, tenendo mio padre Berardino sulle ginocchia, per gioco, gli spiegò la differenza tra i numeri pari e i numeri dispari. Le vacanze del 1943, per mio padre iniziarono presto. A fine maggio, sua madre Olga ebbe una premonizione riguardante il bombardamento di Salerno e i Chieffi lasciarono la casa, sita in Via Roma, per trasferirsi proprio a Capaccio con tutta la famiglia, le sorelle Mary, futuro consigliere del PCI nella prima amministrazione comunale del dopoguerra, Franca, le nonne, Donna Checchina e Potenza e Umberto. Fu per mio padre, allora sedicenne, una vacanza sopra le righe, tra allenamenti di corsa in campagna e passeggiate a cavallo nella vicina tenuta dell’Isca, a Castel San Lorenzo, in proprietà Riccio, con la puledra Ninetta, una splendida salernitana color del miele, permalosissima, la quale accettava unicamente la sua monta in piena libertà, un po’ di caccia, e lo studio accanito del gioco degli scacchi, insieme al comandante dei bersaglieri Visconti, di presidio fra quelle colline. Dei tragici bombardamenti del 12 giugno, i Chieffi ebbero solo notizia, dei soldati morti a Via Nizza, dei martiri di Rione San Giovanniello, e degli altri due passaggi di agosto, ricoveri, puzza, fame, non ne subirono direttamente. Durante lo sbarco alleato, nella notte dell’8 settembre, mia zia Mary e nonno Italo, si trovavano ancora lì, mentre la Signora Olga, insieme a ai figli Franca e Berardino, aveva voluto trasferirsi nelle campagne di Lancusi, annunciando che di lì a poco anche in quelle zone ci sarebbe stata battaglia. E così fu. Tra il 10 e l’11 settembre, Mary e Italo, si trovarono a qualche centinaia di metri dal luogo degli scontri ta le pattuglie del 141° e 142° RCT, inviate in osservazione a Castel San Lorenzo, che si ritrovarono sotto il tiro dell’artiglieria tedesca a difesa del ponte sul Calore, a limitare della tenuta in cui erano ospiti in quei giorni. Dopo la battaglia in cui Mary divenne partigiana sul campo, per aver allestito e assistito il padre Italo in un improvvisato ospedale da campo, decisero, allora, di rientrare con mezzi di fortuna a Salerno, anche per accertarsi di cosa fosse rimasto della casa. Nel frattempo l’appena sedicenne Berardino, saputo dello sbarco alleato, decide da Lancusi di raggiungere su mezzi di fortuna Salerno. La curiosità, la formazione altamente militare, impartita dalla scuola fascista, il desiderio di rincontrare e ritrovare gli amici che la guerra aveva diviso, lo spinsero alla fuga dalla casa sfollata. Fu in quel preciso momento – raccontava mio padre – quando intravide la mezzaluna del Golfo di Salerno, con le navi alla fonda nello specchio d’acqua antistante casa, sovrastati dai palloni sonda anti-aereo, che ebbe la sensazione, che in guerra è l’Uomo, la sua storia, la sua essenza, ad essere negata. “E così si va avanti. E il tempo, anche il tempo va avanti, finché si scorge una linea d’ombra che ci segnala che anche la regione della gioventù deve essere abbandonata” (J.Conrad): l’era spensierata dell’adolescenza nella grande casa di Capaccio era stata sigillata per sempre.