Al settimo appuntamento della rassegna La versione di Marte. Libri, incontri d’autore, narrazioni,, coordinata e curata da Davide Speranza da un concept di Alfonso Amendola, venerdì scorso è stata la volta del volume Il giorno che diventammo umani, di Paolo Zardi (Neo Edizioni). Sono intervenuti con l’autore, presso la Mediateca MARTE di Cava de’ Tirreni, Maria Olmina D’Arienzo (dirigente del Liceo Scientifico “A. Genoino” di Cava de’ Tirreni), Gemma Criscuoli (pubblicista), Pietro Balzano (lettore MARTE) e l’attore Niccolò Farina, che ha letto alcuni racconti.
Per Pietro Balzano, leggere questi racconti è stato davvero come ricevere un pugno nello stomaco, già a partire dal primo, “Domenica pomeriggio” con il quale Zardi manifesta fin dall’inizio la crudezza di linguaggio e immagini che ricorre nel volume, lasciando il lettore senza fiato e catturandolo con una narrazione coinvolgente. Un libro insolito e dirompente, dunque, che in definitiva, nonostante l’atmosfera cupa che lo pervade, si potrebbe considerare un libro d’amore. Il carattere non comune dell’opera è uno dei suoi punti di forza anche secondo la professoressa D’Arienzo, che ne ha lodato la perfezione linguistica e lo stile diretto, privo di orpelli, ma al tempo stesso curatissimo. Si nota particolarmente l’accuratezza degli accorgimenti formali: sintesi, essenzialità, realismo, mimesi linguistica: Zardi si mette davvero nei panni dei protagonisti, per condurre il lettore attraverso una discesa negli inferi che a ben vedere è la premessa di una risalita. Alcune storie terminano con un elemento inatteso: è lo stesso schema delle barzellette, qui adottato per conferire loro un carattere problematico, come è giusto che sia, quando si trattano temi fondamentali, come sesso, amore, morte. Sono temi universali, che in quest’opera vengono affrontati per spiegare che cosa significhi essere uomini. Il dolore, che pervade tutte le vicende narrate, è in realtà una forma di difesa, qualcosa di positivo, che insegna e induce a migliorarsi. La funzione di queste storie si basa sul rapporto tra pathos e mathos, dolore e insegnamento. Qual è “il giorno che diventammo umani”? Forse quello in cui scoprimmo il senso della comunità, il legame coi nostri simili. È quando ci accorgiamo dell’esistenza degli altri e dei limiti comuni, che diventiamo umani. La parola “uomo” viene da humus (terra), che è anche l’etimo di “umiltà”. Leggendo questi racconti si avverte una tensione continua, che però conduce all’accettazione della propria condizione. Sono storie particolari, che ci fanno sentire parte di una comunità più grande. Ed è proprio ritrovandoci, riconoscendoci come simili, che possiamo salvarci. La buona letteratura ha infatti anche un valore soteriologico, e questo libro lo possiede. Si tratterebbe dunque di una specie di breviario laico, da leggere e meditare quotidianamente per gestire le proprie pulsioni intime, le proprie insicurezze. Una sorta di esame di coscienza impegna gli stessi protagonisti dei venti racconti, i quali, secondo l’interpretazione di Gemma Criscuoli, declinano il concetto di redde rationem: tutti i protagonisti si ritrovano infatti a dover fare i conti con ricordi, rimpianti, persistenze emotive. È un passaggio doloroso ma necessario, affinché anche una vita contraddittoria recuperi il suo peso. Zardi ha indagato l’aspetto straniante dell’ordinario, che in queste pagine non riesce a bastare a se stesso in quanto risente di una dissonanza sia pure confinata sullo sfondo, di un vuoto che si tenta di colmare abbandonandosi alle proprie pulsioni. Non dissimile appare la conclusione del dibattito, affidata allo stesso autore: «Ho cercato di rappresentare la tensione tra la spinta vitale, da un lato, e la presenza costante della morte e del dolore, dall’altro. In genere, nell’arco della vita non si trovano soluzioni, ma ciò non ne compromette il valore: nel bene e nel male, è pur sempre l’unica ricchezza che abbiamo. Nella scena finale del film The Elephant Man di David Lynch, il protagonista lancia il suo grido di dolore : «Sono un essere umano!». Questo grido di dolore è anche il filo conduttore dell’opera: è il grido disperato di chi si sente inadeguato alle proprie aspettative o a quelle altrui, e ciononostante rivendica la propria umanità, l’unico bene che si possiede veramente. L’uomo diventa tale nel momento in cui diviene cosciente dell’esistenza e della dicotomia tra bene e male. Quando i progenitori vengono cacciati dal paradiso terrestre (è il tema de “Il giardino dell’Eden”), nasce questa consapevolezza, ma nasce anche l’amore, come unica risposta alla morte.» Si lascia quindi intravedere una via d’uscita, una reazione al male di esistere fondata sulla capacità di attribuire valore alle cose, perfino a momenti apparentemente insignificanti, che può essere esemplificata dall’esito dell’ultimo racconto, un flusso di coscienza ininterrotto, che culmina nella frase finale: «Rido, perché se la vita fa schifo, stasera ha fatto un’eccezione».
Aristide Fiore