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La morte di Federico Sanguineti

La morte di Federico Sanguineti
Di Olga Chieffi
 
Mio primo esame in assoluto Facoltà di lettere e filosofia, letteratura Italiana, cattedra di Ugo Dotti, il quale era assente. Al suo posto avrebbe tenuto gli esami Federico Sanguineti. “Bene, come vestiva Ugo Foscolo?” Così, ho conosciuto Federico, sui versi del settimo sonetto, tra i sussurri e i consigli dei compagni di corso di non azzardare l’esame, perché dietro la cattedra c’era un folle a giudicare. Non ho avuto il dono di averlo come professore in ateneo, ma tanti anni dopo quel giugno del 1988, come amico, prestigiosa firma di questa testata, una collaborazione iniziata per necessario “gioco” nel deserto del covid, durante il quale, forse, abbiamo aperto una finestra unica sul mondo, per dirla con Leibniz. Su queste colonne sono state pubblicate le sue Pillole per una nuova storia letteraria, i temi, assegnati da me, sempre inerenti alla letteratura, alle sue donne, quindi raccolti in un volumetto, “essercizi” di filologia, versi, in occasione di giornate e ricorrenze, il suo Dante, le sue Parolacce. In questo intensissimo, breve, quindi dannato, periodo di continuo scambio, abbiamo toccato con mano che Federico non è mai stato il professore in, ma ex-cattedra, generosissimo Maestro,  ovvero colui che offre aiuto, suggerimenti, ispirazione dentro e fuori l’aula, segnala svolte e insegna prospettive, indica una via e la illumina, col proprio esempio, col proprio “fare”, col proprio porsi sempre in gioco, instilla il dubbio, che è l’unica via per uscire dalla “selva”, un passaggio sicuro fatto di pochi principi chiari, su cui procedere, lavora indefessamente con severità, nella costruzione del sapere, senza mai aggobbire sotto sistemi pre-confezionati, verso sempre nuovi traguardi, conquistati in prima persona. La ricompensa è l’onore di trasmettere qualcosa, di accendere una scintilla in chi viene dopo, un piacere puro, “gratuito”, quindi, impopolare. E impopolare è stato Federico Sanguineti, in ateneo,col sistema universitario attuale, che lo ha portato ad allontanarsene prima del tempo, soffocato come è dalla mediocrazia, da quel “giocare il gioco”, ovvero l’accettazione dei comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, quel sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi e il naso, quel modo in cui si saldano le relazioni informali, con cui si fornisce la prova di essere “affidabili”, collocandosi sempre su quella linea mediana, che non genera rischi destabilizzanti. Federico non ha mai voluto accettare questo gioco, lui erede di Edoardo, che ha sempre praticato l’impossibile, latori entrambi, anche se hanno vissuto un rapporto in eterno contrasto, come apprenderemo dal carteggio che intrattennero per un totale di oltre cinquecento lettere, di cui sembrano non essersi conservate le risposte del figlio al padre, oggi oggetto di studio e ricerca del nostro ateneo, di quella  praticabilità artistica, sociale ed etica dell’anarchia, che significa fornire comunque saggi e sensate esperienze alla società e che ci porta a dire, con loro, che il nostro vero lavoro oggi, se amiamo l’umanità e il mondo in cui viviamo è la rivoluzione, che ognuno deve compiere con le proprie armi, ovvero con gli strumenti e i campi in cui eccelle. “I dantisti muoiono giovani e io non so perché sia ancora qui” diceva. E Federico ci ha lasciato solo fisicamente, ieri, dopo le celebrazioni della giornata dedicata a Dante, della cui Divina Commedia aveva licenziato la sua interpretazione critica filologica definitiva. Un metodo,  quello di Sanguineti, in ogni sua ricerca letteraria, con il quale ha attraversato sempre l’universo femminile: con lui con le “sue” donne letterate, messe a tacere dagli storici della letteratura di “regime”, da Cristina da Pizzano a Isotta Nogarola, da Cassandra Fedele a Laura Cereta e ancora Modesta Pozzo, Margherita Sarrocchi, Isabella Andreini, Lucrezia Marinella, Faustina Maratti Zappi, Luisa Bergalli Gozzi, un metodo, secondo il quale ciò che rimane nascosto non stabilisce il limite e lo scacco dell’interpretazione, ma ne costituisce il terreno fecondo, ove, qui, un nuovo modus può fiorire e svilupparsi, caratterizzato da una sintesi stringente e una scrittura semplice e per “sottrazione”, ricominciando sempre dalla pagina pura, in difesa della sua bellezza, e ancora, verificare, immaginare, scegliere, analizzare, ideare per conseguire nuove folgorazioni e meraviglie inaudite e nuovi spegnimenti angosciosi, in un avvicinarsi, tendere, aspirare continui a qualcosa che mancherà, che non si otterrà. Ecco, allora che il cilindro che indossa, ora,  Federico Sanguineti, e noi insieme a lui è, sicuramente, uno di quelli magici che mise in fuga il traditore, arrampicatore sociale, aspirante borghesotto Rap, dalla bidonville in cui si riusciva a condividere anche l’ultimo raggio di sole, in “Totò il buono” di Cesare Zavattini. Un cilindro il suo che ha sin dalla tesi di laurea incontrato la berretta bianca, aderente alla testa con punte coprenti gli orecchi, cui è sovrapposto un berretto con fascia al sommo della fronte e un ricasco a cappuccio sul dorso, da cui sporge il celebrato naso di Dante Alighieri. Ciò che unisce Federico e Dante è la parola libera e la libertà d’arte. La ricerca e la denuncia degli scempi perpetrati nei secoli dai copisti, attraverso lo studio certosino dei vari codici, unitamente a quegli degli interpreti, degli storici, che hanno cercato di “adattare” Dante al proprio tempo, al proprio uso e costume. La sua morale, condanna le interpretazioni e i versi scelti ad hoc per generazioni di studenti, da Farinata, a Francesca, sino ad Ulisse, che le “parolacce”, quindi, non sono solo bordello, tigna, puttana, merda, ma ben altro. Sull’affiorare insistente, sottile e nostalgico di emozioni, colori, profumi, vivificati dall’ascolto di una specie di racconto, un filo di storia breve e pur intenso “pieno”, oggi reso disperato, e insostenibile, per la famiglia e tutti gli amici, dall’agire quieto, incessante e inesorabile, delle grandi leggi di natura, capaci di svelare il segreto di quell’anima senza tradirla, gettandovi soltanto un raggio di luce obliqua, scopriamo dentro di noi una nuova, particolare qualità d’animo, un patrimonio di sentimenti e valori ricchissimo, quell’educazione all’amore che Federico col suo esempio, nel suo passaggio terreno è riuscito a trasmetterci. Saluteremo domani alle ore 9,30 nella chiesa di San Carlo Borromeo in Torino, stringendoci alla figlia Francesca, al fratello Michele e alla famiglia tutta.

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