di Olga Chieffi
Della celebrata trilogia verdiana Rigoletto è l’opera preferita dalla maggior parte dei musicisti. Nessun’altra opera presenta un equilibrio così perfetto fra elementi lirici e drammatici; nessun’ altra è così ben proporzionata, così ricca di idee nitidamente concatenate e collegate organicamente al tutto. Certo, doveva passare molto tempo prima che Verdi la superasse nelle opere a venire, in quella densità inventiva così organizzata da ingannare il tempo empirico degli orologi. E’ questa l’opera che nel 1872 inaugurò il massimo salernitano ed è il Rigoletto su cui, per festeggiare i 150 anni del teatro Verdi, stasera si leverà il sipario alle ore 21, diretto da Daniel Oren sul podio, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana e del coro del massimo, preparato da Tiziana Carlini, per la regia di Massimo Gasparon, con le scene di Alfredo Troisi. La storia è imperniata sul conflitto emotivo tra la posizione pubblica di Rigoletto come buffone ufficiale di corte e la sua vita privata di padre attento e dedito, ma clandestino. La dicotomia interiore del personaggio del titolo è resa sia musicalmente che nella caratterizzazione psicologica in tutto lo spessore tragico della sua condizione umana: buffone ma triste, rancoroso e provocatore ma dolorosamente afflitto, una personalità contrastata e proprio per questo così umana. Per la musica il grande interrogativo è: come si fa a rappresentare artisticamente ciò ch’è deforme e infame senza che lo stile divenga esso stesso deforme e infame? Ecco l’abisso che separa Verdi da Hugo, il teatro musicale dal teatro di parola. Nel teatro musicale la forza di un elemento simbolico muta radicalmente il rapporto fra creazione e creatore, da un lato, fra creazione e chi tale creazione deve contemplare, dall’altro. Non consideriamo ancora l’anima paterna di Rigoletto, fremente insieme e solenne: questa si scopre solo a metà del primo atto. All’inizio abbiamo una musica asimmetrica, dissonante, volgare: in certi punti essa mima lo stesso incedere zoppo del gobbo. Quando, nel primo atto del Rigoletto, Monterone appare (“Ch’io gli parli!”), l’orchestra sviluppa asimmetrici trochei cromatici, schizzando la precisa immagine di Rigoletto che strascicando la gamba s’avvicina al vecchio irato prima d’insultarlo coram populo. Verdi possiede una sintesi e una sicurezza stilistica che basta il “declamato” del giullare, “Voi congiuraste contro noi, signore”, per schizzare il grottesco unitamente all’orrido. La parte del protagonista che avrà la voce di Juan Jesùs Rodriguez, resta la più grande mai scritta per un baritono spinto, tale da esigere ogni cambio di registro emotivo di cui la voce è capace. Essa è, certo, impietosamente spinta verso l’acuto, non tanto negli “a solo”, quanto nei duetti con Gilda che richiedono assoluta bellezza di timbro. la nuova dimensione del “comico” ha consentito a Verdi di caratterizzare in modo unico sia Gilda, che avrà la voce di Caterina Sala, che il Duca di Mantova, che avrà quella di Valentin Dytiuk. La prima è un soprano lirico leggero, infantile, semplice, vergine di ogni egoismo (“O buona figliola” esclamerà quando Maddalena annuncia il proposito di far fuggire il Duca), mentre il secondo è un compendio di fascino spietato ed elegante, nobile solo quando è frustrato. Fra i comprimari, Maddalena (Maria Barakova) è un personaggio appena sbozzato che come individuo emerge soltanto nel quartetto; d’altra parte Sparafucile (Carlo Striuli) è una creazione di straordinaria efficacia: il suo humour tenebroso e sardonico, unito al vigore del tratto, rende la sua parte del tutto diversa dal ruolo di basso “vecchio” o “eremita”, caro all’opera italiana. Questa funzione è svolta da Monterone (Maurizio Bove), il quale, pur essendo baritono, è il monumento del basso comprimario. Ad ogni apparizione, la sua è la “Voce di Dio”. Infine c’è il coro con le sue tre teste, Borsa (Enzo Peroni), Marullo (Angelo Nardinocchi), il Conte di Ceprano (Luigi Cirillo) con la contessa (Miriam Artiaco), pieno d’infinita malizia, è perciò pericoloso, rappresenta una corrente nel tessuto musicale e drammatico dei primi due atti. Ancora una volta, sembra che la musica si faccia “altro da sé”; e invece nel Maestro italiano questo coincide con la più severa forma musicale.