L’esposizione dedicata alla riproduzione fotografica di Armando Cerzosimo ha vissuto mercoledì sera nella sua galleria un intenso finissage, affidato alla “parola” piena di Paolo Apolito, in dialogo con Gabriele Bojano
Di Olga Chieffi
Nove giorni sono trascorsi dal vernissage della mostra “Il panno ritrovato” di nata dall’affidamento da parte del parroco della cattedra di Matteo, Don Michele Pecoraro del compito di fotografare il panno restaurato di San Matteo, ovvero la realizzazione di un file che permetterà di riprodurre la bellezza e la forza espressiva del “drappo” ogni volta che sarà necessario. Se l’inaugurazione ha salutato gli interventi di Cristina Tafuri e la lettura di Brunella Caputo, il finissage è stato affidato alla parola piena dell’antropologo Paolo Apolito, in dialogo con Gabriele Bojano. Paolo Apolito, comunicatore e affabulatore sopra le righe, è partito da “La terra del rimorso”, dagli studi di Ernesto De Martino, dal folklore magico delle nostre terre, da una fotografia che dette vita alla famosa notte della Taranta. La religione tentò di arginare questa “medicina”, ponendola sotto l’egida di San Paolo, patrono di Galatina: ma le donne, a modo loro, più o meno inconsciamente, si svincolavano da questa “protezione” strappandosi oscenamente i vestiti di dosso, e addirittura orinando sugli altari – in una sorta di rito di possessione in cui permangono elementi della sfida di Aracne, la donna che si trasforma in ragno, la sfida femminile nei confronti dell’ordine, e del divino usato a scopo repressivo, che libera l’elemento del soprannaturale nella musica e nell’arte. Dall’immagine di una reunion di “tarantolati” siamo giunti all’ interpretazione di questa mostra di non semplice lettura, poichè propone, appunto, la riproduzione fotografica del panno ritrovato e restaurato, da parte del fotografo professionista Armando Cerzosimo, corredata dalle immagini del backstage di questo scatto, ovvero lo studio per raggiungere la massima resa, da parte dei fotografi Edoardo Colace e Corradino Pellecchia. Innumerevoli le domande poste da questa esposizione: la fotografia di Armando Cerzosimo è solo documento o è arte? Perché una mostra relativa alla riproduzione di un’opera e il suo backstage, in cui il soggetto si sposta dal panno al fotografo che lo immortala? Quale l’essenza di quella riproduzione? Paolo Apolito ha posto sul tappeto due termini “pesanti”, trascendenza e immanenza. Viviamo tempi “usa e getta” – anche la coscienza e i sentimenti, disvivere più che vivere -, ossia la vita quotidiana intesa quale consumo veloce, consunzione oscura, spendita e ricarica inerti, abbandono, cieca soddisfazione, sopraffazione: un patrimonio di sentimenti e valori ricchissimo, non può essere fermato in un selfie, che è simbolo di vanitas, nel doppio senso di vanità e di effimero, vuoto, eseguito per testimoniare ad altri di essere lì in quel momento, magari alla performance o alla passerella della stella di turno. Aggiungo, oggi non si va più a ringraziare l’artista in camerino, per scambiare una parola sullo spettacolo o, magari, chiedere l’autografo, ma per fare il selfie: “A volte mi trovo in difficoltà – ci rivelò Leo Gullotta – a non poter più esprimere una sola parola, ma solo un sorriso d’occasione, per essere immortalato in un click con persone che non mi lasciano più nulla”. Si potrà obbiettare che il selfie rimane in rete, per qualche tempo, chissà, fin quando tutto non verrà oscurato, perché oramai le fotografie difficilmente vengono stampate, immagino perché la visione è immediata e la “nuvola” a portata di dito, ma è sempre la ragione di quell’azione che racchiude il suo consumo al momento. Nel selfie viene quindi evocato il nichilismo nietszchiano, prima attraverso la “seconda inattuale”, con i suoi concetti di memoria e tempo e di storia, baluardo moderno contro il Nulla, seguita dall’assunto principe della svalutazione dei valori. Nichilismo è, dunque, il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali – Dio, la verità, il bene – perdono il valore e periscono e la trascendenza pare persa. Invece, le immagini di questa mostra nascono da una ricerca di trascendenza, sono state realizzate fatte per essere tramandate, per allargare la fruizione del panno, come quelle dei riti sacri, dei matrimoni, ad esempio, non solo da parte del nostro Armando, il quale ha vissuto pienamente, “pathito” l’istante, per dirla con un termine chiave della filosofia di Aldo Masullo, scegliendo le ottiche, aspettando la luce, mettendo in gioco il suo “sguardo” esperto, ma i fotografi del backstage, Edoardo e Corradino, sono riusciti ad umanizzare queste occasionali emozioni, in un luogo particolare e amato quale è il duomo di Salerno, condividendole tra loro, con Armando e con noi. Non v’è infatti “fenomeno”, ovvero “vissuto”, emozionale e non, che non sia tale perché è sentito come “mio”, proprio di un sé. Movendo le emozioni e ritrovandosi in esse, l’erosione del tempo scomparirà, i rapporti saranno nuovamente possibili, grazie alla differenza e al dialogo, che si risolverà in discorsi, racconti d’Amore, come quello a cui abbiamo partecipato nella galleria di Armando Cerzosimo, unico viatico valido per il futuro dell’ Umanità.