di Olga Chieffi
In occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa del grande danzatore Alberto Spadolini, in arte Spadò, l’Atelier di Riccione, che ne conserva la memoria e direi la leggenda, ha dedicato un libro al grande artista. Marco Travaglini, assieme ad Angelo Chiaretti, ispettore onorario dei Beni culturali e ad Andrée Lotey, docente di Letteratura Francese a Montréal, con la prefazione della giornalista Erminia Pellecchia, ha riacceso i riflettori su quest’uomo dal multiforme ingegno, che ha ricevuto il giusto riconoscimento solo dal 2005, anno in cui è venuto alla luce il suo archivio, dalla polvere di una soffitta, con il volume: “Alberto Spadolini: arte e spionaggio (anche l’Italia ha il suo James Bond)”, Ed. Atelier Spadolini. Fu D’Annunzio a scoprirlo come ballerino e a farlo danzare con Ida Rubinstein in “Le martyre de Saint-Sébastien,” musicato da Claude Debussy. Spadolini emigrò a Parigi. Nel 1932 era già premier danseur all’Opéra di Montecarlo, osannato e venerato dal gotha artistico francese, da Jean Cocteau agli attori Jean Marais e Jean Gabin, a Marcel Carné, da Dora Maar a Jean Renoir. Partendo da un’Italia provinciale, passando attraverso i lussuosi salotti di Gabriele d’Annunzio e gli interni rivestiti di povera juta del Teatro degli Indipendenti, Spadolini pittore, scenografo, danzatore, attore, regista, cantante, approda nella scintillante Parigi degli anni Trenta, conteso da Joséphine Baker e Marlene Dietrich. La seconda guerra mondiale lo vede divenire agente per i servizi di spionaggio occidentali e adotta il significativo nome di Ermes, messaggero degli dei. L’anello dannunziano con la spada invitta è sempre con lui e lo rende invincibile nella lotta contro il male, come un moderno cavaliere. Ma le femmes fatales affascinate dal Nijinsky italiano non erano poche, si fanno i nomi di Mistinguett e dell’immortale Marlene Dietrich. Spadò, come lo chiamavano nel bel mondo francese, fu notato anche da Joséphine Baker, che lo volle accanto nel suo spettacolo al Casinò de Paris. La «Venere nera» mulatta, mandava gli uomini in delirio danzando vestita solo di un gonnellino di banane. Con lei il nostro Spadolini ebbe una travolgente relazione sentimentale. Durante l’occupazione tedesca i due si mescolarono con la resistenza antinazista, lei passava informazioni scritte con inchiostro invisibile sugli spartiti. I tedeschi, invitarono Spadò ad esibirsi a Berlino per l’anniversario di Franz Lehar. Spadolini, ormai definito l’Apollo della danza, impersonava un dio greco, e riuscì a stregare Hitler e il suo entourage. Il ballerino, però, lavorava in segreto per uno svedese capo di un gruppo di critto-analisti, trasferendo documenti da Stoccolma a Marsiglia. A guerra finita, eccolo in trionfali tournée a New York e nelle principali città sudamericane, in Asia e in Africa. Aveva casa a Montmartre e la Francia gli aveva messo a disposizione il Palais Chaillot sul Lungosenna, vicino alla Tour Eiffel. Spadolini, ritiratosi dai palcoscenici, si dedica alla passione primitiva, la pittura: i quadri che esegue, visioni oniriche intrise di cromie dense e cangianti, scaturiscono da ricordi autobiografici fondati, come sosteneva Jean Cocteau, sulla “trasmigrazione dell’anima nella danza”.“Spadò danza i suoi sogni. I suoi sogni di pittore”, commenta Max Jacob. Trasferendo sulla tela memorie di visioni e di sensazioni che il confronto con la sua terra gli suscitava, componeva nel tempo un vero diario esistenziale: le vedute marchigiane, dai colori caldi e rassicuranti, sono forse la nota più intima e malinconica, che lo pone agli antipodi di quella Parigi dal fine perlàge che lo incoronò quale Spadò.