La Befana, la Musica, il Silenzio, le voci di dentro - Le Cronache Ultimora
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La Befana, la Musica, il Silenzio, le voci di dentro

La Befana, la Musica, il Silenzio, le voci di dentro

Di Olga Chieffi

 

 

“Ninna nanna ninna oh…..questa bimba a chi la do’, se la do’ alla Befana, me la tiene una settimana……”.

Frequentavo la scuola materna, avevo quattro anni. Mia madre  un po’ per gioco, un po’ perché i bambini devono essere portati a dormire con una carezza, mi cantava la ninna nanna della Befana. Una sera mia madre mi affidò alla Befana, che mi tenne con sé una settimana. Fu allora, che la incontrai per la prima volta: una vecchia contadina, forte, magra, col naso affilato, vestita di panno scuro come la corteccia dei faggi. Gli occhi chiari e belli. Ora sono cresciuta e continuo a mantenere rapporti di amicizia affettuosa con la Befana. Non capisco le persone che non credono all’esistenza della Befana e vorrebbero farla sparire. Esse non credono all’esistenza della Befana soltanto perché non l’hanno mai incontrata e perché, forse, non hanno mai pensato al legame tra il sogno, la realtà e la poesia”.

Così iniziava un mio tema di quarta elementare, anno 1978, la cui traccia recitava “Come era bello credere alla Befana, la vecchietta benefica dei bambini. Ora sono grande e ricordo….”. Oggi sulle tracce di quello stesso legame ci ritroviamo a pensare ad una colonna musicale per la Notte che conclude il Viaggio dei Re Magi, pastori “nobili” rappresentanti il vasto mondo delle “genti”. Alla Befana, nella simbologia solare dei magi, “la re Magia”, evidente rappresentazione della Luna, raffigurata in portantina sorretta da quattro schiavi, fidanzata del re dal nero cavallo, simbolo della Notte, entità dalla natura ambigua, salvatrice dell’Uomo dal buio, che rappresenta il luogo della non-vita, dimensione dell’immaginario, che attraverso la luce, sorgente di vita, attrice-agente, rompe l’incanto, dissolve le paure, sconfigge e ricaccia negli Inferi gli spiriti malefici, dedicheremmo la Sinfonia dei giocattoli. Questa pagina di Leopold Mozart scritta per il suo piccolo Wolfgang, di appena quattro anni, nel gennaio del 1760, magari proprio nella notte dell’ Epifania, attribuita in un primo tempo a Franz Joseph Haydn e addirittura al fratello Michael, è in effetti un divertimento in Do Maggiore, ricco di suoni che riproducono i giochi dei bambini dell’epoca: imitazione del verso di uccelli (quaglia, usignolo, cucù), dei sonagli, del tamburino e del fischietto. “Un piccolo dono – scrive Leopold al figlio ventiduenne – per ricambiare l’affetto di quando tu, bambino e anche da ragazzino, non andavi a dormire se prima non mi avessi cantato, in piedi sul seggiolino, l’  “oragnia figatafa”, al canto della quale, di tanto in tanto e alla fine, mi baciavi la puntina del naso, e mi dicevi che, fossi io vecchio, mi avresti messo dentro una teca col vetro davanti, per preservarmi dagli spifferi”. Quadretto familiare nella famiglia Mozart ove l’affettuosa armonia di casa e la frequentazione mai interrotta con la fantasia, il sogno, il gioco, i suoni, la luce, legata ai severissimi studi di musica, hanno salvaguardato e prodotto uno dei massimi geni dell’umanità. Un bambino toscano di otto anni, canta, impugnando un ukulele, di voler volare nel blu. Testate nazionali scrivono già di “inediti”, di carriera di attore, di musicista, di tecnico del suono, di compositore, di cantante, di cantautore, di accompagnatore al pianoforte addirittura per qualche frase intonata da Alida Berti di “Tu che di gel sei cinta”, che ricordiamo magnifica Liù proprio qui al teatro Verdi diretta da Daniel Oren, un bimbo dell’età della sua coetanea, la quale difese la Befana nel tema, perennemente sotto l’occhio dei social, senza temer giudizio, su performance degne o meno di menzione. Il bimbo, non lasciamoci scappare anche il termine enfant prodige, poiché ci sono stati e ci sono bambini che o suonano con tutti i crismi, afferma di non credere a Babbo Natale, addirittura per motivi economici, ovvero che non può esistere qualcuno che si possa mettere a regalare “senza essere pagato”, senza essere contraccambiato, senza “negozio”. Il bimbo in questione è solo innocente simbolo di una categoria, purtroppo, estesissima, fatta di videetti, talent-show, post, sempre più vuoti, miserrimi, senza rete, continui, mostruosi. Viviamo tempi “usa e getta” – anche la coscienza e i sentimenti, disvivere più che vivere -, ossia la vita quotidiana intesa quale consumo veloce, consunzione oscura, spendita e ricarica inerti, abbandono, cieca soddisfazione, sopraffazione, attraverso cui ci si avvicina al Nulla inesorabilmente, finanche nella scuola, nelle arti, che dovrebbero essere baluardo all’erosione del tempo. Aspettiamo a dormire stanotte, grandi e piccoli, poiché pure ci deve sollecitare l’urgenza d’intrecciare, di “fare”, senza sosta, visibile e invisibile, per costruirci un veicolo, non so, magico di contatto per il viatico del “sogno” che parte dal buio, dall’ombra, come nella caverna di Platone, mentre ci si tiene al palo del grande realismo, in un rapporto reciproco fra paradosso e quotidianità, che appare basato su di un’ambivalenza nella quale gli opposti si legano dialetticamente e i confini fra illusione e realtà sono costantemente violati, ma per essere ripristinati in un movimento incessante di contrapposizione e di fusione. Il cielo stasera sarà stellato e ci inviterà ad abbandonare ogni intento di controllo e a tentare di scoprire i mezzi che consentano di essere noi stessi. E nel dire le cose, nel dire il silenzio presente in esse, la parola, il suono, il segno, nel suo domandare dovrà riaccendere la meraviglia. Meraviglia che non è solo incanto o superamento estatico della ragione, ma è e continua ad essere riflessione: la riflessione del cogito che prova insieme l’angoscia del silenzio – ossia della morte – e la gioia della parola, della luce delle cose. Umanizziamo le occasionali emozioni, siano esse l’incontro con lo sguardo puro di un animale, il sublime della natura, la luna, una lettura, la partecipazione ad un evento artistico, a cellulari spenti, senza secondi fini. “Un po’ di pace!” fa gridare Eduardo De Filippo al saggio Zì Nicola de’ “Le voci di dentro”, “Sparavierze”, poiché il suo unico modo di comunicare è ai limiti dell’assurdo: rinunciando all’uso della parola, si esprime solamente attraverso botti e fuochi artificiali, girandole colorate e tric trac. Cosa rappresenta questa figura così ambigua e “silenziosa”? A spiegarlo è il nipote Alberto Saporito, l’unico in grado di capirlo: “Parlare è inutile, perché il mondo ha smesso di ascoltare”. Zio Nicola è la coscienza, la saggezza che resta in silenzio quando il mondo è troppo violento e non c’è più la pace, unico obiettivo vero dell’umanità. “La saggezza non può parlare”. Come fa ad esprimersi la saggezza quando è sottoposta ogni giorno a spettacoli raccapriccianti? Solo in punto di morte, poco prima di esalare l’ultimo respiro, Zio Nicola si decide a lanciare l’ultima sentenza e il suo respiro non può che essere un fuoco pirotecnico, verde che ne annuncia la morte. Il silenzio dopo i fuochi è rotto dal solo profferire di Zi’ Nicola : “Per favore, un poco di pace!”. “Basterebbe far tutti un po’ di silenzio e riusciremmo a sentire le voci”, dice Ivo Bellini nel finale de’ “La voce della Luna” di Federico Fellini, non a caso con Eduardo “ultimo” dei visionari. Dopo aver tentato numerosissime, troppe strade, occorre, ora, far silenzio, in modo che, in esso, la mente possa aprirsi un cammino immune da sensi prefissati e di qui, ogni slargo, ogni liberazione, ogni ri-nascita, potrà divenire possibile. E’ la Notte della Befana il cielo è sgombro, una voce mi giunge da lontano: “Ninna nanna ninna oh…Questa bimba a chi la do’? Se la do’ alla Befana, Me la tiene una settimana…..”.

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