Di MARCO ALFANO
Settembre è il tempo di Matteo Apostolo, che ricordiamo per la narrazione delle sue vicende dipende innanzitutto dai caratteri suggeriti nella celebre Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Ma al di là dell’iconografia classica del nostro Patrono, c’è una celebre, ma forse ancora poco nota narrazione “colorata” delle vicende dal Suo libro, vale a dire nel Vangelo. Siamo parlando degli coloratissimi affreschi che decorano la volta della celebre Cripta del Duomo di Salerno, dove si celebra l’opera di Matteo quale scrittore sacro. L’egregia opera è databile al 1606 e sancita magnificamente dal grande stemma che orna l’altare bifronte che è quello di sua maestà di Spagna, Filippo II, campione della cultura controriformata. La regale committenza affida l’impresa della decorazione di Salerno ad alcuni tra i maggiori maestri attivi a Napoli nel corso del primo decennio del secolo XVII, dagli architetti Domenico e Giulio Fontana dello scultore Michelangelo Naccherino e dal pittore Belisario Corenzio. Dello scultore toscano, ancora poco studiato ma ben noto a Firenze per un gruppo scultoreo, successivo all’opera salernitana (che esegue le due statue identiche bronzee di Matteo sugli altari della cripta), che orna una delle uscite minori del Giardino di Boboli, rappresentante Adamo ed Eva, in cui alcuni caratteri di rigidità formale d’origine bandinelliana ricordano l’apprendistato del Nacherino presso il maestro Vincenzo de’ Rossi, già ravvisabile nei modi vigorosi della figura di San Matteo e nella più vivace figura dell’angelo che lo ispira. Altra opera del nostro scultore, che si era stabilito a Napoli nel 1573, il bellissimo Cristo alla colonna ora a Montelupo Fiorentino. L’impresa decorativa prestigiosa pensando al regale committente, sarà replicata nello stesso anno nella cripta del Duomo di Amalfi, dov’era conservato il corpo di un altro apostolo: Andrea. Ebbene a guardare le scene affrescate a Salerno dal pittore greco Belisario Corenzio, che si era lasciato sicuramente aiutare da una folta schiera di collaboratori, appare davanti ai nostri occhi di osservatori moderni e un po’ distratti, una specie di libro squadernato, il libro scritto da Matteo, il cui corpo riposa in quella stessa cripta; in uno stile pienamente controriformato, quindi pienamente leggibile e comprensibile da tutti, ritroviamo il racconto biblico trascritto in immagini, tra cui la lettura dolorosamente partecipe che egli, Matteo, l’Evangelista, aveva offerto della Passione di Cristo, oppure quello una personalissima e appunto ancora più commovente narrazione della propria tardiva conversione (Matteo 9, 9-13), quando Matteo di Cafarnao – o meglio Levi che era il suo vero nome ebraico –, narrando di sé in terza persona, si presenta come un “pubblicano”, vale a dire un esattore delle tasse per conto dei Romani, che era quindi considerato, a tutti gli effetti, un traditore del suo popolo, un peccatore al servizio dei dominatori pagani; in altri termini un arricchito che speculava sulla pelle della sua gente. A ben considerare la vicenda terrena di Matteo, si evince la dolorosa storia di un uomo, Matteo, l’Evangelista, ma anche l’idea di un cristianesimo come dolorosa e tragica situazione degli uomini. Al centro di una difficile tragica scelta morale, nella consapevolezza che per l’uomo è impossibile vivere e lavorare nel mondo, e insieme cercare il Regno di Dio. “Nessuno può servire due padroni … non si può servire Dio e il denaro” (Matteo 6, 24). Sarebbe stato impossibile, in altri termini, per Matteo seguire Gesù e insieme continuare a fare l’appaltatore di imposte: per questo il pubblicato il peccatore, Matteo rinnega la sua vita passata, il suo posto nella società, per diventare uno degli apostoli. Matteo si converte lasciando tutto e seguendo Gesù. Una scandalosa scelta con un valore attuale poiché egli è l’immagine del cristiano (il cittadino) che arriva alla Regno dei Cieli (al Bene), con sofferenza, contraddicendosi, sbagliando.