GENOVA. Il maestro Lucio Tafuri valido esponente della pittura contemporanea, orgoglio della città di Salerno, su richiesta del Mil. (Movimento Indipendentista Ligure) ha realizzato un opera che racconta i moti genovesi del 1849.
Da tempo, l’artista salernitano era alle prese con quello che lui stesso ha definito un lavoro complesso e di grosso impegno. Un dipinto di metri 2,50 di larghezza, per 1,70 di altezza, in cui appaiono una serie innumerevole di figure che nel loro insieme descrivono la tragedia di quei giorni.Il lavoro, che andrà ad arricchire uno dei saloni di rappresentanza dello storico Palazzo Comunale Doria-Tursi di via Garibaldi n.9 dove sono ubicati gli uffici del sindaco, narra una pagina di storia da molti dimenticata o addirittura ignorata. Avvenimenti storici che l’artista salernitano attraverso studi e ricerche ha voluto illuminare con la giusta luce intellettuale, la stessa, che nel corso dei secoli ai più è apparsa volutamente spenta dagli storici.
Recitava Cicerone che “il terreno della Storia è illimitato come il tempo ed è intenso come gli avvenimenti che la compongono. Ad essa vanno attribuite definizioni conformi ai suoi compiti. La Storia è “Lux veritas”; splendore della verità, quella che illumina la mente sulla realtà delle cose; alimenta il pensiero, e, talvolta stimola il rimorso. Ma spesso la Storia è annunciatrice di avvenimenti passati, spesso smarriti nei meandri del tempo, che a volte riaffiorano per ricordarci, magari con sorpresa, ciò che riteniamo, affogato nella voragine del tempo. La Storia che altresì è fatta da uomini ed imprese, purtroppo si edifica pure sui tradimenti, sulle crudeltà e sulle viltà…”
“Essa”, quella genovese, ebbe inizio nei giorni successivi all’armistizio firmato il 25 marzo del 1849 a Vignale (quartiere di Novara) da Vittorio Emanuele II di Savoia ed il generale austriaco Josef Radetzky. La firma di tale accordo provocò nel popolo la fondata paura di una cessione della città ligure agli austriaci a seguito della resa piemontese e dell’abdicazione di Carlo Alberto.
Il fondato timore di un “baratto” tra poteri, comportò lo scoccare della scintilla dei moti “genovesi” che portarono alla temporanea formazione a Genova di un governo autonomo e staccato da Torino. A seguito di ciò, per sedare il propagarsi della rivolta venne inviato dal Piemonte il generale Alfonso La Marmora con l’esercito sardo e il corpo speciale dei bersaglieri.
Alle già forti truppe reali, si affiancarono da mare quelle ben addestrate degli inglesi del comandante Lord Hardwicke che senza alcun preavviso la mattina del 5 aprile iniziò a cannoneggiare la città di Genova. Dopo un incessante bombardamento, presero di fatto il possesso del molo e congiuntamente all’assalto di terra attuato dai bersaglieri piegarono la resistenza dei rivoltosi. L’azione a tenaglia durò appena trentasei ore.
Ed è a questo punto che la storia, comincia a tingersi di tinte fosche, in quanto La Marmora giunto di fronte alla porta della Lanterna, simbolo storico della città, fingendo di voler trattare la resa con i genovesi sferrò, all’improvviso verso di loro un ultimo tremendo attacco. Nella battaglia perì il giovane Alessandro De Stefanis (capo dei patrioti) e questo segnò la fine della sommossa.
Difatti, gli ultimi atti di resistenza all’azione del Generale La Marmora furono definitivamente soffocati l’11 aprile del 1849 consegnando, di fatto, l’intera città ad un corpo di occupazione stimabile in circa trentamila uomini.
E fu durante questo periodo, come di solito accade, che una buona parte dei soldati si lasciarono andare ad una serie di inenarrabili azioni, abbandonandosi alle più meschine e truci gesta a danno della popolazione violentando ed uccidendo uomini donne e bambini, senza risparmiare neanche i luoghi sacri.
Solo a distanza di anni, quando le nuove generazioni presero coscienza e conoscenza di ciò che era accaduto, attribuendo le responsabilità in buona parte alle truppe piemontesi, la pace tra Genova ed i fanti piumati avvenne nel 1894, quando la città ospitò il 42° raduno nazionale del corpo. Le cronache di allora parlano di un Amedeo di Savoia-Aosta, nelle vesti di paciere, senza che fosse cancellata la fosca pagina scritta a danno di una intera popolazione.
In merito alla “storia” e al lavoro che l’ha rappresentata, il maestro Tafuri afferma: – “Quando il M.I.L. (Movimento Indipendentista Ligure) mi ha contattato per commissionarmi un opera dalle notevoli dimensioni che potesse narrare i fatti avvenuti in quei giorni, io in realtà di quanto accadde ne sapevo ben poco. Il pensiero di essere stato interpellato, e l’idea di vedere un mio dipinto custodito all’interno di una delle sale più prestigiose del Comune immediatamente ha acceso in me la luce dell’ispirazione, dando fuoco alle polveri del mio spirito creativo. Per un attimo, ho immaginato il sangue versato nel corso della storia della nostra Italia, ho pensato alle guerre, ed essendo io campano il ricordo è andato anche ai moti napoletani contro i nazi-fascisti. In parole povere mi sono sentito lusingato, sia come artista che come salernitano trapiantato da decenni a Genova, in quanto ancora una volta un Tafuri, prima di me mio padre, era stato scelto per la realizzazione di un dipinto dalla notevole importanza storica.
Pertanto, ho accettato immediatamente senza riserbo la sfida, concedendomi solo qualche giorno per ricostruire la storia dei “moti genovesi”.
Sinceramente, più mi addentravo nei riporti scritti di quei “fatti” e più venivo preso dalla voglia di raccontarli. Un sentimento che, man mano si trasformava in emozione visto che quei giorni non hanno riguardato solo insorti e soldati, ma donne, vecchi e bambini. A questo punto dovevo solo scegliere la scena dove ricostruire l’intera tragedia, pertanto la mia attenzione è andata sull’interno delle mura dell’ex ospedale di Pammatone, sorgente nel quartiere di Portoria, oggi trasformato in località Piccapietra.
Una struttura che per circa cinque secoli, dal “400” agli inizi del “900” è stato il principale ospedale del capoluogo ligure.
Recatomi all’interno di questa struttura, oggi restaurata e messa in sicurezza dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, mi sono immerso nel silenzio architettonico del suo atrio. Ho socchiuso gli occhi e per qualche attimo mi è sembrato di sentire il riecheggiare degli spari, i sibili delle pallottole nell’aria, lo stridio delle lame e le urla di dolore e di morte di coloro che pagarono con la vita le gesta della loro ribellione. In quel momento ho capito da dove e come iniziare il mio racconto…”-
L’opera che ha avuto una durata di realizzazione di diversi mesi, ha coinvolto anche me, che da Salerno ne seguivo il lavoro. In effetti quando ci sentivamo a telefono sentivo forte l’emozione che provava il maestro Tafuri, il quale di volta in volta mi mandava foto dell’opera. Al punto, che più le guardavo e maggiormente mi convincevo che ad essa mancavano solamente i suoni, le voci, le urla…Il maestro salernitano stava realizzando uno tra i dipinti più importanti della sua vita.