Salerno scende dall’alto del Castello e dalla collina Bonadies, col bel nome augurale, si trascina il vento verso il mare. Forse la città è ancora una scacchiera, ma con molte caselle vuote, due re, gli alfieri che scorrono di traverso, veloci: mancano i cavalli, le zampe alte che si torcono per saltare di lato e non cadere. I pedoni sono tutti addormentati, sognano duelli ai quali un poco partecipare, ma non sanno nemmeno da che parte stare. Dalla fine della seconda guerra, Salerno s’è assestata, slargata, spostata, ha aperto ali enormi in cui nasconde il suo bel volto sfigurato. Ne è venuto fuori un rapporto con la provincia difficile e indistinto e, se abiti a Mercatello o a Bellizzi, un’uguale cultura t’addormenta. Nella città il potere religioso -ma anche quello politico- si muove con levigata attenzione per non cadere. Non è più cattolica, Salerno, non è nemmeno diventata laica, è infeudata alla pigrizia, non si muove mai niente tra le sue mura, ci si guarda con circospezione, da lontano: il vescovo col suo cerimoniere senza sorriso e il sindaco (anche lui ha ormai un suo particolare consigliere che non sa la chiarezza del sorriso) trascinano nella coda del loro manto regale una città troppo lenta, senza fervore politico, con una vita culturale sentita come un falso addobbo ingombrante. Il colore che meglio rappresenta questa stanchezza è il grigio: in qualche modo, il più consapevole dei colori, la persistenza della percezione di un lento svanire. Cos’è rimasto sulla scacchiera della nostra città? Poche ombre, corpi devozionali, alcuni (ma pochi) anche generosi, sono scomparse le passioni civili, lo spasimo delle lotte, forze in campo testarde che mostrino la loro volontà di cambiare, trasformare. Non bandiere rivoluzionarie hanno in mano i nostri condottieri, e i due massimi, i re che si confrontano in un inchinevole sorriso, ma larghi fazzoletti bianchi a salutare un treno dipinto. Si sono incontrati recentemente, il Sindaco e l’Arcivescovo, nel grande Salone dei Marmi per parlare del Concilio Vaticano II, quel grande fuoco che si spense in fretta e ricordiamo come una speranza, che ingigantì nella sua ombra cercando di aprire innumerevoli porte. Poi tutto, accuratamente, una mano cancellò da quella lavagna ospitale.
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