di Michelangelo Russo
Nell’agosto del 1973 l’incubo del colera raggelò le ultime calure d’estate. Incredula la gente comune, che non sapeva bene cosa fosse il colera e non aveva memoria di epidemie perniciose su larga scala. Chi invece percepì subito la minaccia globale furono quelli molto vecchi, in gran parte poco scolarizzati, e quelli tra i giovani che erano più scolarizzati in materie classiche e letterarie. Mia nonna aveva 76 anni, e iniziò a ripetere in litania gli orrori della febbre spagnola del 1918 e i nomi delle sue coetanee di allora falciate da un giorno all’altro nella piena giovinezza. Ma gli scenari macabri li vedemmo subito con la mente anche quelli, come me, che avevano tradotto dal greco le cronache della peste di Atene del tempo di Pericle, e avevano ascoltato in classe le parole del Decamerone di Giovanni Boccaccio sulla dissoluzione di ogni vita civile tra le cataste di morti per la peste del 1347; e avevano visto con le parole di Manzoni l’orrore dei panorami urbani tra i miasmi dei carri di cadaveri nella Milano appestata del 1630.
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