“Un ricordo che non puo’ scomparire per noi che eravamo a Washington, eravamo tanti ragazzi italiani. E’ il ricordo di aver sperimentato la guerra per un giorno, una cosa che un italiano, un figlio della Comunita’ europea, non puo’ capire di cosa si sta parlando”. Il pensiero di Eugenio Stabile, oggi professore associato di Cardiologia all’università di Napoli Federico II, torna a vent’anni fa, all’11 settembre del 2001. Allora, viveva in America e svolgeva il dottorato di ricerca a Washington. “La mattina – ricorda il medico salernitano Stabile che, tra l’altro, è direttore dell’unità operativa complessa di Cardiologia all’ospedale San Carlo di Potenza – arrivai al Washington Hospital Center alle 8.30, come solitamente facevo, e trovai sul sito di Repubblica la foto del primo aereo schiantato sulle Torri e non si capiva neanche cosa fosse accaduto”. “Dall’ospedale – aggiunge – vedevamo il fumo provenire dal Pentagono e poi ci dissero che era caduto un altro aereo sul Pentagono”. Poco dopo, “iniziarono ad arrivare in ospedale i primi feriti dalla zona del Pentagono”. “Difficilmente nella mia vita riuscirò a dimenticare quei momenti. Tutti quanti noi dobbiamo fare in modo che queste cose non succedano mai più”, confida rammentando che, a Washington, “in quei giorni, c’era un grande congresso con persone arrivate li’ da tutta Europa e da tutto il mondo per vedere i progressi della cardiologia interventistica”. Quelle stesse persone “furono bloccate a Washington per una settimana, ma fu un po’ come una settimana surreale in cui eravamo tutti li’ e non ci rendevamo conto”, racconta. Ma, “dove mi sono reso conto della tragedia cui andava incontro il mondo fu il giorno in cui ci furono i bombardamenti di risposta americana verso l’Afghanistan”. Difatti, “quando tornai a casa con la mia bicicletta, a Washington non c’era nessuno. Quel giorno l’America era entrata in guerra”. “E’ un ricordo brutto”, rimarca auspicando che “questa testimonianza serva, anche alle nuove generazioni, perche’ il nostro scopo deve essere quello dell’integrazione delle culture”. E spiega: “All’epoca, lavoravo notte e giorno con un ragazzo iracheno. Per noi due era impossibile quello che era successo perche’ ci dividevamo gli esperimenti, il pensiero, la voglia di studiare e di dimostrare quello che avevamo pensato. Eravamo come due persone fuori dal mondo. C’erano terroristi che combattevano contro una grande nazione – conclude – dove entrambi eravamo andati a studiare per cercare di fare qualcosa insieme”.
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