di Olga Chieffi
Successo di critica e pubblico per il secondo appuntamento di Salerno Classica, rassegna cameristica al suo debutto, volta ad unire l’arte musicale con quella visiva, firmata dalle associazioni Gestione Musica e PianoSolo Festival. Ricorderete le parole di donna Prassede “Si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza” e questa rassegna, riporta finalmente in auge un genere, la musica da camera che, per minore evidenza gestuale, riserbatezza dei mezzi e, in genere, la comparativamente maggiore difficoltà di linguaggio, fanno sovente, di un ciclo di concerti, una battaglia contro la pigrizia di una parte del potenziale uditorio. Certamente, il programma dedicato alle sonate da camera, eseguito nella chiesa di San Giorgio, era quello più ostico dell’intero cartellone, per il pubblico, poiché ha presentato tra le due sonate di un Gioachino Rossini dodicenne, la sonata di Maurice Ravel op.73, opera in cui il linguaggio musicale pare ridotto alla sua nuda ma iridescente essenza, dal momento che concentrazione e riduzione a nuda essenza sono la caratteristica della vera musica da camera e, quindi, dell’intero repertorio musicale. E’ stato un rigenerare il genio rossiniano delle sonate a quattro, da parte di un ensemble del tutto originale, composto da Giuseppe Carotenuto e Alessia Avagliano al violino, Francesco D’Arcangelo al violoncello e Luigi Lamberti al contrabbasso, autori di una performance frutto di controllo critico, volontà di migliorarsi, concentrazione e soprattutto comunicazione, di perpetua presenza nella scelta equilibrata dei tempi, di una cura costante ad evitare soprassalti e frammentazioni nel flusso discorsivo. Due le sonate da camera del cigno di Pesaro, proposte al pubblico di Salerno Classica, la prima e la celebre sesta, “La Tempesta”, simili tra loro, con un primo movimento ampio, in cui temi compaiono più volte, passando da uno strumento all’altro, senza subire, al modo classico, procedimenti di variazione o sviluppo. Lo stile, fa si pensare al classicismo viennese, ma non è insensibile ai modelli dello stile italiano, specialmente a quelli del melodramma coevo, caratterizzato da una scrittura fluida e leggera e un libero fluire della melodia, anche virtuosistica, sopra semplici accompagnamenti. Il quartetto ha massimamente valorizzato quell’imprendibile mutare d’espressione, costituito dalla sequenza di cellule differenti, che d’altra parte ha richiesto agli interpreti un notevole sforzo, in direzione di un’elastica duttilità, espressiva e tecnica. Tra le due pagine di Rossini, Giuseppe Carotenuto e Francesco D’Arcangelo, si sono incontrati sull’ ermetica ed enigmatica Sonata op.73 di Maurice Ravel, in cui i due strumenti mantengono la stessa importanza e, per pura illusione uditiva, è sembrato, a volte di sentirne uno, salvo, poi, essere scaraventati all’interno di un quartetto d’archi. Modalità, politonalità, atonalità, poliritmie, questi gli ingredienti e gli ostacoli, che hanno dovuto affrontare nei quattro movimenti della sonata, costruendo un dialogo, intenso e incessante tra loro, in contrappunto fitto ed essenziale. Alta sapienza interpretativa da parte dei due musicisti, che hanno saputo magnificamente condurci tra gli intrichi labirintici di questa pagina di rarissimo ascolto, filiforme, puntiforme, quasi inafferrabile, resa attraverso una gran varietà di emissioni sonore, pizzicati armonici, arco ponticello trilli, accordi pizzicati e glissandi con effetto di timpani, quasi orientato all’universo bartokiano. Applausi scroscianti del pubblico e appuntamento a sabato 6 per i tre concerti della XIII edizione del Festival Internazionale PianoSolo, firmato da Paolo Francese, ospite della bellissima Chiesa di San Benedetto.