Informazione. Quale vogliono e quale bocciano gli italiani? - Le Cronache
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Informazione. Quale vogliono e quale bocciano gli italiani?

Informazione. Quale vogliono e quale bocciano gli italiani?

DI ALDO PRIMICERIO

Emerge da un sondaggio di Swg su un campione di 2mila persone. L’abbiamo trovato altamente istruttivo ed orientativo. Su di noi giornalisti, ma anche su di noi lettori e telespettatori. Che approfondiamo tra breve. Un sondaggio che contiene risposte che troverebbero assai utili i direttori e redattori di giornali, radio e tv. Perché? Perché il rapporto tra italiani ed informazione non è semplice. Se appare evidente l’esigenza di una informazione libera di indagare e di contribuire a far luce sui fatti, emerge con forza anche una certa diffidenza e un fastidio verso forme di spettacolarizzazione delle cronache. La gente non ama che si manipolino le verità dei fatti da parte di chi ha come obiettivo unico la ricerca di visibilità. E va detto che l’obiettivo dei lettori, o almeno di buona parte di essi, coincide perfettamente con quello di buona parte dei giornalisti. Ma perché? Quale malessere si avverte? E’ il malessere della cosiddetta disintermediazione. Cosa significa? Riusciamo a riflettere su cosa è accaduto in questi ultimi anni? O, meglio dire, negli ultimi due decenni?

La disintermediazione e la crisi delle democrazie rappresentative. Cosa si chiede oggi al sistema dell’informazione?

Accade che è crollata la presenza dell’intermediario nella informazione. Internet, Amazon, Facebook, per citare solo alcuni dei vettori che oggi dominano la nostra vita, hanno rimosso ogni figura di mediazione tra la produzione della notizia e la sua fruizione. Essi garantiscono il collegamento diretto tra domanda e qualsiasi offerta, economica o politica o informativa che sia. Ed in più, alla rimozione dei tradizionali intermediari si è aggiunta l’emersione di nuovi mediatori, spesso meno visibili e riconoscibili ed anche meno responsabili dei vecchi. E questo cambiamento riflette la trasformazione e la crisi delle democrazie rappresentative, che a loro volta riflettono il cambiamento di partiti, di politici, di rappresentanze degli interessi e, alla fine, anche dei giornalisti.

Informazione. Quale tipo vogliamo e quale bocciamo?

Ma cosa vogliamo noi italiani dalla informazione? Quale preferiamo, e quale invece bocciamo? Dove si volge la nostra passione per la verità? Nel campione sondato – in cui immaginiamo di esserci anche noi – rispondiamo che a contribuire meglio a ricostruire la verità sono le trasmissioni tv di inchiesta professionale come Report, Presa Diretta ed altre del genere. Ci piacciono i giornalisti indipendenti, e non quelli che vanno prima a fare gli eurodeputati e poi tornano a sentenziare a La7. Sbagliato, perché altamente immorale. Ci piacciono i programmi che riprendono casi irrisolti o persone scomparse (Chi l’ha visto ed altre). E, nell’apposita classifica, il nostro interesse scema via via che l’informazione tenta di specchiarsi in docufilm che su Netflix, Prime Video o Discovery cercano di ricostruire o sceneggiare fatti di cronaca. Fino a bocciare l’informazione che si trucca di satira, come quella delle Iene o di Striscia la Notizia, o che si dilata nei contenitori tv come la Vita in Diretta. Che non sono realtà, ma ricostruzione della realtà. Il che fa storcere il naso a più d’uno, che si chiede dove finisca la realtà e dove cominci il tentativo di ricostruirla, magari con l’aiuto della fantasia.

Nel sondaggio si scende ancor più in profondità quando si chiede agli intervistati quele ruolo abbia avuto l’informazione nel cercare la verità su fatti controversi di cronaca. E nella classifica al primo posto spicca l’indagine sulle donazioni agli ospedali legati ai prodotti sponsorizzati da Chiara Ferragni. Seguono la ricostruzione della vicenda del rapimento di Emanuela Orlandi, la riapertura delle indagini sul delitto di Erba (ricordate, la strage compiuta dai coniugi Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi nota come Rosa, che uccisero 4 persone a colpi di coltello e spranga in un appartamento a Erba, provincia di Como, poi dato alle fiamme). E, in fondo alla classifica delle risposte, il caso della ristoratrice di Lodi che, per il presunto falso post omofobo e contro i disabili, noi lo abbiamo inserito nelle ricostruzioni dannose e diseducative, per l’impatto negativo prodotto sui lettori.

Cosa si chiede all’informazione perché meriti la giusta libertà di raccontarla?

Ed al campione sondaggiato viene anche chiesto cosa chiediamo al sistema dell’informazione perché si condivida la sua piena libertà di raccontarla, quali sono le doti che i giornalisti devono mettere in campo. Le 4 risposte devono far riflettere tutti. Perché le prime due richiamano il sistema informativo alla sua responsabilità e professionalità, con i giornalisti che devono sentirsi responsabili di eventuali effetti negativi sulle persone coinvolte delle notizie divulgate. Le altre due, meno sentite delle prime ma ugualmente avvertite, secondo cui i giornalisti devono sentirsi liberi di fare le loro inchieste senza farsi condizionare dalle possibili conseguenze, ed inoltre devono esprimere appieno la loro professionalità per l’impegno di informare correttamente lettori e telespettatori. E tutto questo conferma quanto già accennato in apertura, che cioè l’obiettivo dei lettori, o almeno di buona parte di essi, coincide perfettamente con quello dei giornalisti, o almeno di buona parte di essi.

Ed infine, la libertà di informare, ma anche il dovere di rispondere della diffusione di notizie spesso strillate per aumentarne la visibilità. E qui è interessante rilevare come oggi a ritrovarsi d’accordo sugli indispensabili requisiti del sistema informativo siano soprattutto i lettori ed i telespettatori dai  45 anni in su. Una conferma del peso che età ed esperienza giocano nel giudizio degli italiani.

Che fine ha fatto la verità in un mondo in cui si viene menati per il naso?

E poi ancora le fake news. Che fine ha fatto la verità nell’era delle bufale? Quale è la realtà in un mondo che ha a che fare ogni giorno con l’informazione digitale? Alcune risposte sono eloquenti. Ma anche disarmanti.

La prima è che la nostra attenzione da utenti è in continuo costante calo. La durata media dell’attenzione era – come si legge – di dodici secondi negli anni 2000, scesa a otto nel 2013, crollata a cinque secondi negli anni 2020. E quindi ecco la fatica (e gli espedienti) per catturare l’attenzione. La seconda risposta è che siamo sempre più circondati da post-verità. Sono l’effetto incrociato di alcuni fattori: il primo, le nostre cattive abitudini di scorrere le notizie sullo smartphone fermandoci solo ai titoli, il secondo, le bufale che chiunque di noi può costruire con un computer ed una connessione a Internet, il terzo, l’ansia di alcuni giornalisti di produrre notizie trascurando il fact-checking, cioè la verifica della loro attendibilità. La terza risposta è sorprendente: il ritorno di moda degli articoli lunghi. Per anni siamo stati convinti che i lettori non li sopportassero. Ora èare ci sia una impensabile controtendenza, con articoli con più di 1000 parole spesso fino a 20mila!

Come concludere? Cosa stiamo imparando dall’informazione digitale? Un sacco di cose.  Che i pezzi emotivi oggi tengono le persone incollate alla notizia. Che aggiungere link sulle parole spinge il lettore ad aprirli per approfondire. Che ricerca e fact-checking sono oggi le armi per la ricerca della verità. Che gli articoli (o i reportages tv) devono rispondere alle esigenze di tutti, quelli che vanno di fretta e quelli che invece amano approfondire. Che le tecnologie digitali non sono tutto se non sai costruire una informazione credibile e di qualità. Ed anche semanticamente attraente, cioè con lingua e parole pregnanti e coinvolgenti.