Di Martina Masullo
Intervistare Daniela Calabrò, docente associata di Filosofia Teoretica presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno, è stato come (re)innamorarsi della filosofia. Se la prima volta era stata al liceo, la seconda è stata senz’altro nel suo studio, in un qualsiasi pomeriggio di marzo, parlando di Platone, Montale, Merleau-Ponty, Nancy e di quel “girasole impazzito di luce” che riassume il senso di tutta la riflessione della professoressa.
Tra i suoi insegnamenti (Fenomenologia della cura, Filosofia del dialogo, Filosofia teoretica e dell’intersoggettività: tutti interessanti) ce n’è uno che ha attirato particolarmente la mia attenzione: Filosofia della contemporaneità. Di cosa si tratta nello specifico?
Nello specifico Filosofia della contemporaneità vuole analizzare i flussi contemporanei del nostro pensiero filosofico, in particolare gli autori che vanno dal Novecento in avanti: ad esempio quest’anno mi sto occupando di un filosofo a me molto caro che è Jean-Luc Nancy, scomparso nell’agosto del 2021, che ha lavorato moltissimo ai temi del contemporaneo. Un suo testo, infatti, si intitola proprio “Del contemporaneo” ed è un testo in cui si analizzano le strutture formali e lessicali del nostro pensiero contemporaneo. Tutto questo facendo sempre ricorso a quelle che sono le indicazioni programmatiche che dalla tradizione occidentale – da Platone in avanti – hanno preso avvio. In questo corso, il focus principale è quello legato al concetto di corpo che si espone. C’è un testo molto bello di Nancy che si intitola “Corpo Teatro” in cui, appunto, l’intento dell’autore è quello di mettere in scena il corpo. Ora, il corpo è già una messa in scena perché ‘appare’ e quindi si mette in scena, esponendosi, fin da quando nasce. Questa esposizione è il centro del pensiero contemporaneo. Tutti i corpi, viventi e non viventi sono messi in questione, nel senso che ci interrogano. Corpi maschili, corpi femminili, ibridazioni dei corpi, corpi virtuali: tutti corpi che accedono al senso, all’esistenza e al mondo. Il corpo non è più, come lo intendevano Platone o Cartesio, qualcosa di materiale, che rimane chiuso rispetto alle idee che appartengono all’iperuranio, ma dal ‘900 in avanti è un corpo che si esprime e si esplica nella variegata forma del mondo. Oggi il corpo è un vivente-vissuto, per dirla con le parole di Merleau-Ponty. Un altro vettore di pensiero relativo al concetto di corpo, che è molto interessante, è quello dell’intrusione dei/dai corpi. Cosa accade quando il nostro corpo si ammala? Esso, per dirla brevemente, si altera e si espone a qualcosa di altro, lo abbiamo visto con la pandemia. Questa alterità produce degli effetti in un corpo che sostanzialmente è vulnerabile. Gli altri miei corsi si legano a questo tema: uno è Fenomenologia della cura il cui focus centrale è ancora il concetto di corpo nella dimensione che più lo caratterizza e cioè la sua vulnerabilità e fragilità. Ecco quindi che affiora la riflessione sulla cura, che è inscindibile dalla riflessione sulla corporeità: il prendersi cura come qualcosa che viene prima di ogni ‘pensiero’ della cura (la Sorge di cui parla Heidegger). L’ultimo corso è quello di Filosofia del dialogo, anche questo strettamente legato agli altri in quanto tutti i corpi sono dialoganti con gli altri, non solo i corpi umani ma tutti i corpi del mondo: umano, animale e vegetale. Devo dire che questo percorso con gli studenti che stanno partecipato attivamente alle lezioni sta procedendo molto bene.
Qual è stato il suo percorso di studi e quale è stato il momento in cui ha capito che la filosofia sarebbe stata la sua strada?
Io mi sono diplomata al liceo classico “La Farina” di Messina, quindi ho una cultura prettamente umanistica, anche se la parte scientifica mi incuriosisce molto tant’è che ho sempre lavorato guardando alla storia e alla filosofia della scienza perché credo che ci sia una interconnessione importante tra la filosofia, la scienza e la letteratura. La mia vocazione poi è stata un po’ particolare perché c’è stato un punto di svolta: finiti gli anni della scuola, l’idea era quella di iscrivermi all’università. Tutti i miei amici si iscrivevano a giurisprudenza e quindi anche io mi iscrissi lì; i miei genitori erano molto contenti perché giurisprudenza era la facoltà per eccellenza. Iniziai a frequentare i corsi e, però, mi accorgevo che quel linguaggio non mi apparteneva, non era il mio, non lo sentivo aderente alla mia esistenza. Con un po’ di sofferenza, a dicembre del 1987 (allora c’era la possibilità di cambiare entro due mesi la facoltà scelta) cambiai percorso. Mi ricordo quel Natale come l’anno del cambiamento: riflettevo molto in quelle settimane su quello che sarebbe stato il mio futuro e piano piano anche i miei genitori si accorsero che c’era qualcosa che non funzionava. Il 27 dicembre andai in segreteria e feci il passaggio a Filosofia. Da lì si aprì il mio mondo: quello per cui sempre ho lottato, con tanta passione anche nei periodi più complicati.
In questo “mondo” ha avuto un maestro che ha influenzato il suo lavoro e la sua ricerca?
Sì, assolutamente sì. Ho avuto una maestra molto importante, la professoressa Enrica Lisciani Petrini che mi ha guidato su questo crinale. Quando iniziai a scoprire la filosofia teoretica non mi mossi più da lì perché era ed è, secondo me, la disciplina più adatta a quello che io intendevo scoprire e ‘fare’ con la filosofia. La mia maestra mi trasmise la reale passione per la filosofia anche nel modo più complesso possibile perché la filosofia è anche qualcosa con cui ci si scontra, ci si ostina ed è una sorta di corpo a corpo che non è uno scontro, ma è il corpo che cerca di far sentire se stesso. Questo è stato un punto fondamentale del mio percorso.
Tra le sue pubblicazioni ci sono articoli, saggi e libri dedicati al tema del corpo, dell’amore, all’arte. In generale a tutto ciò che concerne la dimensione dell’umano. In particolare, tra gli ultimi lavori mi ha colpito “Humanity. Tra paradigmi perduti e nuove traiettorie” del 2020.
Questo volume nasce come un convegno pensato insieme all’Accademia di Belle Arti e alla Federico II di Napoli. Questo convegno, il cui manifesto è l’immagine dell’uomo a pezzi che indica che il fondamento è crollato, metteva al centro quello che è andato perso della tradizione culturale occidentale, E allora cosa si è perso? Tutti quei paradigmi (ad esempio, quello teorico-politico o quello religioso) che hanno fatto collassare il mondo così come lo conoscevamo in passato e che facevano dell’umano l’umano a cui abbiamo creduto, a cui hanno creduto i nostri padri che in qualche modo non erano ancora disposti a fare i conti con la possibilità dell’esistenza. Nel senso che la possibilità dell’esistere viene data per scontata, ma non dovrebbe essere così. Ecco, le nuove traiettorie sono quelle che aprono nuovi percorsi nell’intendere ancora l’arte, il mondo, l’uomo, il corpo, l’amore. Tutto quello che viene fuori da questo percorso altro non è che un rimettere il gioco il concetto di humanitas che è quella dei ‘tempi bui’ di cui ci parlava Hannah Arendt o quella di Edmund Husserl nei suoi saggi sul rinnovamento dell’Europa. Questi filosofi tentano di riscrivere questi paradigmi perduti in altre traiettorie e da qui è necessario partire. Ma quanto sono importanti le loro parole oggi? Moltissimo perché questi sono i luoghi a partire da cui si possono istituire nuovi percorsi e nuove traiettorie, è questo ciò che bisognerebbe fare e questo era l’animo di questo volume a cui se ne è dovuto aggiungere un secondo per l’ampiezza e la numerosità dei contributi. Insomma, direi che è stato un lavoro poderoso.
Che ricordo ha di Nancy e, qual è l’attualità del suo pensiero?
Io qui ho un ricordo di Nancy [mi mostra una foto]. Quello è il suo cappello sopra la punta di un armadio: eravamo a Palermo in un’aula gremitissima di studenti provenienti da ogni parte del mondo. Lui entra, prende il suo cappello e lo poggia lì. Questa immagine viene immortalata perché in qualche modo era bello ricavare un’immagine di Nancy, senza Nancy. C’è un ricordo personale e professionale di lui. Il primo, risale a quando ho avuto l’onore di conoscerlo, tra il 2005 e il 2006, nel corso di una intervista che gli feci e che venne poi pubblicata nel volume a lui dedicato. Intervista che, sostanzialmente, voleva mettere in gioco le categorie tradizionali del pensiero. Nonostante che l’intervista venne effettuata tramite email, questo primo passo di conoscenza verso di lui mi ha molto colpita perché in lui c’è sempre stata – e si percepiva in qualsiasi interazione – l’idea di non fare nessuna differenza tra chi avesse di fronte, fosse un professore universitario o uno studente al primo anno. E questa cosa per me è importante e la cosa che apprezzavo ancora di più è che in tutti i momenti di convivialità lui andava a cercare sempre i giovani, era come Socrate, si distaccava dai colleghi, dagli accademici che per lui ovviamente avevano riservato il posto d’onore. Nancy ha influito tanto nel mio percorso di studio e di lavoro. Tra l’altro sta per uscire un nuovo libro su di lui che si intitolerà, speriamo, “Il pensiero ci attende”. Perché il pensiero ci attende? Perché non abbiamo mai iniziato a usarlo. La filosofia non è nient’altro che creazione e questo lato è molto importante anche per Nancy. Lui ha sempre lavorato sui temi dell’umano, del mondo, della finitezza dell’esistenza, della corporeità però lo ha sempre fatto seguendo un registro di toni non apocalittici, ma ha sempre voluto nelle sue opere dare una possibilità dell’esistenza, la chance del pensiero che consiste nella possibilità di poter costruire qualcosa. Per me, lui è stato uno dei grandi Maestri del pensiero filosofico.
La filosofia e la sua attività accademica rappresentano una parte della sua vita, ma qual è la sua seconda anima o una passione che la caratterizza?
In realtà io ho difficoltà a disgiungere la filosofia dalla mia vita e questo è un grosso guaio. C’è molta passione in ciò che faccio e mi è sempre stato riconosciuto, però in definitiva la filosofia o il modo di fare filosofia per me sono essenziali e prioritari. Pierre Hadot scrive un’opera importante “La filosofia come modo di vivere” ed è di fatto così e non saprei farne a meno. Tutte le mie passioni sono attraversate dalla dimensione filosofica. Oggi dicevo agli studenti che c’è molto in comune tra la filosofia e la poesia. Pensiamo a ciò che scrive Montale: “portami il girasole impazzito di luce”. Ecco, se oggi si dicesse questo a un fidanzato si verrebbe lasciati all’istante? Oppure forse no, si riuscirebbe a trovare il girasole impazzito di luce. Ecco, quel girasole impazzito di luce altro non è che questo modo di darsi dell’esistenza che passa attraverso la poesia e il nostro sentire. Se qualcuno mi avesse mai detto “portami il girasole impazzito di luce” io sarei impazzita per quella persona. E allora questo significa che quella immagine, quella frase, quella scrittura ha creato in me un nuovo orizzonte, un nuovo mondo, qualcosa di diverso a cui non avevo pensato. E questa è creazione ed è ciò che fanno la poesia e la filosofia ed è per questo che per me filosofia, poesia e teatro sono un tutt’uno.
Se dovesse dare un consiglio ai ragazzi e alle ragazze che stanno affrontando il percorso universitario e, magari, pensano di proseguire proprio in questo ambito, cosa gli direbbe?
Gli direi senz’altro una cosa: ognuno di noi ha in tasca una cosa importante e straordinariamente fertile che è il tempo. Direi loro di occuparsi del tempo perché è ciò che ci sostiene e ci consente di fare le cose, il tempo è ciò che ci fa comprendere le cose, che fa in modo che gli eventi della vita abbiano, volta per volta, dei colori e delle sfumature diverse. Ecco, i giovani devono prendersi tempo e averne cura per decidere, fare, creare, costruire e non devono mai smettere di avere quel tempo in tasca che è l’oggetto più prezioso di tutti.
E secondo lei, le nuove generazioni hanno cura del tempo?
Secondo me sì, ma non se ne accorgono. In questa generazione sento che c’è qualcosa di diverso, è nell’aria, e questa è una cosa bella e che mi fa venire i brividi.