di Silvia Siniscalchi
L’idea di una piccola indagine sulla pizza nasce da una vivace e spiritosa conversazione sui rapporti tra cibo, cultura e territorio, svoltasi a tavola (come è ovvio) circa vent’anni fa. Il tema, tuttora attuale, potrebbe inserirsi nel ricco filone letterario, cinematografico ed editoriale dell’arte culinaria, ormai divenuta un prodotto mediatico di notevole successo, tra film, trasmissioni televisive, manuali di cucina e guide, cartacee e digitali, ad argomento “food”. Ma la pizza e il cibo, in generale, non sono soltanto oggetto dell’interesse ludico, folkloristico o culinario, né sono i semplici protagonisti di una ricerca sui ritrovi migliori tra ristoranti, osterie, taverne e, ovviamente, pizzerie. Possono invece diventare indicatori del sostrato etnico-culturale di una popolazione e, proprio per questo, potenti strumenti di comunicazione, partecipazione e integrazione tra etnie differenti. La pizza, da questo punto di vista, è cibo di integrazione culturale per eccellenza, come dimostra una ricerca di stampo statistico e antropologico condotta nel 2004, dalla quale risulta che la pizza occupa un posto prioritario tra le preferenze alimentari degli immigrati in Italia. Gustosità ed economicità, secondo tale ricerca, rendono difatti questo alimento, riscoperto e valorizzato da nutrizionisti ed esperti dell’alimentazione, particolarmente adeguato al basso livello di reddito degli immigrati.
L’indagine – durata quasi due anni e presentata a Salerno durante la settima edizione della “Festa della pizza” – ha avuto come obiettivo la raccolta e la comparazione di informazioni sulle abitudini alimentari di uomini e donne provenienti da continenti diversi. In particolare, lo studio è stato condotto su un campione di 182 persone provenienti da 35 paesi del mondo, nell’ambito di un più vasto progetto, realizzato dal Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo dell’Università “La Sapienza” e dall’Istituto San Gallicano di Roma. La ricerca ha così dimostrato non solo che la pizza è l’alimento italiano preferito dagli immigrati, ma ha rivelato anche che in questi ultimi è comunque molto forte e sentita la necessità di tenere vive e far conoscere le tradizioni culinarie del proprio paese d’origine. L’alimentazione italiana è dunque gradita quasi del tutto ma, ciò nonostante, il rifiuto parziale o totale di determinati tipi di alimenti è in parte condiviso dalla totalità del campione, con peculiare riguardo per una sua specifica componente proveniente da determinati paesi, perché fortemente legata ai divieti religiosi.
A distanza di quasi vent’anni i risultati dello studio sono tuttora validi, come emerge dalla moltiplicazione in ogni città italiana di fast-food e ritrovi a base di pizza, intera, a trancio, bianca, margherita e via enumerando. Se , a prima vista, la proliferazione di pizzerie e tavole calde tematicamente affini sembrerebbe rispondere a un’esigenza prevalentemente pratica, è tuttavia possibile approfondirne le ragioni a partire da presupposti di ordine storico-culturale ben più complessi: la pizza rimanda ai potenti simboli del pane, del fuoco e del forno, archetipi del patrimonio culturale di ogni civiltà umana; è un piatto unico, tradizionalmente mangiato con le mani, così come previsto dalle consuetudini alimentari dei paesi d’origine di molti immigrati; associata ai meridionali italiani partiti già da oltre un secolo per l’America, è espressione di una sofferenza condivisa dagli emigranti di tutti i tempi; è il frutto dell’incrocio di differenti ingredienti e tradizioni alimentari e richiama, dunque, un significato pluralistico del concetto di identità culturale; nasce come cibo dei ricchi e dei poveri, annullando idealmente le gerarchie tra le classi sociali; cibo semplice e genuino, ha conquistato una fama internazionale, quale espressione peculiare di Napoli e dell’Italia, ma anche come rassicurante rappresentazione di un gusto collettivo e condiviso, nella conservazione – attualmente tutelata – del carattere partenopeo ed artigianale originari.
Non a caso proprio nel 2004 sono state avviate una serie di iniziative per la tutela della pizza artigianale campana (tra cui il “Disciplinare di produzione della specialità tradizionale garantita «pizza napoletana»” del Ministero delle politiche agricole e forestali, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale N. 120 del 24 maggio 2004), volte a precisarne le caratteristiche e a distinguere nettamente la produzione artigianale da quella commerciale o industriale.
Integrazione culturale, intercultura e immigrazione: un problema internazionale, ma di particolare interesse per l’Italia
Com’è noto, i flussi migratori verso occidente si sono moltiplicati, fra aperture, chiusure e conseguenze complesse. Sullo sfondo, la lotta tra paesi ricchi e poveri, come scriveva Massimo Montanari alcuni anni fa, si presenta quasi come “la versione allargata – frutto dell’economia mondo – degli scontri per il controllo e l’uso delle risorse alimentari che da sempre hanno accompagnato la storia degli uomini. In qualche modo, pur nel contesto estremamente mutato, tutto ciò ripropone il tema della lotta di classe all’interno di quello che McLuhan definì il ‘villaggio globale’”.
La coesistenza di differenti elementi ideologici, religiosi e politici, in un sistema culturale sempre più complicato da decodificare, rappresenta uno dei tratti caratteristici della società contemporanea, chiamata a confrontarsi con l’arduo tentativo di salvaguardare identità e differenze, unità e molteplicità delle sue diverse componenti, superando ogni logica egemonica.
Nel difficile equilibrio di diverse strategie politiche – variamente ispirate ai criteri dell’assimilazione o del pluralismo – alla luce di emergenze sempre più pressanti, in Europa e nei paesi anglosassoni d’oltre oceano vi sono state negli ultimi anni un buon numero di teorie sulle modalità di prevenzione e soluzione di problemi derivanti da un insufficiente livello di integrazione tra culture diverse. Ne sono un esempio la “Dichiarazione Universale sulla diversità culturale” adottata dalla trentunesima sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO (Parigi, 2 novembre 2001), che ha sottolineato come il rispetto della diversità culturale e il consequenziale passaggio al pluralismo culturale riguardi il campo dei diritti umani; la successiva adozione nel 2015 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile da parte dell’ONU, con la Risoluzione su Cultura e Sviluppo Sostenibile adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine dello stesso anno; il dibattito filosofico e sociologico sulle questioni connesse all’elaborazione di un modello comune di integrazione nel quadro dell’Unione Europea, tra i cui massimi esponenti vi sono Jurgen Habermas e, per l’Italia, Massimo Cacciari; la riflessione sui temi della globalizzazione e dell’ibridazione culturale, con l’affermazione della teoria della globalizzazione come “ethnoscape”, formulata dall’antropologo indiano Arjun Appadurai. E si potrebbe continuare.
Per quanto riguarda l’immigrazione in Italia, come risulta da recenti indagini, è ormai chiaro che il fenomeno, divenuto permanente, renda indispensabile la creazione di un ponte di comunicazione tra mondi e soggetti differenti, attraverso l’uso o l’elaborazione di linguaggi comuni e condivisi, presupposto di qualunque tipo di integrazione culturale. In tale ottica il termine ”intercultura”, in aggiunta al significato di “mediazione”, ne acquisisce uno più ampio e profondo, rimandando alla costruzione di autentici rapporti tra persone culturalmente differenti, come emerge dalle indagini sulla mediazione culturale del Cisp-Unimed, disponibili su Internet.
Nella faticosa e lenta opera di realizzazione di un mondo interculturale e pluralistico, il ruolo svolto dall’alimentazione – linguaggio dell’istinto e della cultura, dell’uomo primigenio e dell’individuo evoluto – può rivelarsi fondamentale; proprio il rapporto tra uomo e cibo, infatti, conferma il significato pluralistico insito nel concetto di identità culturale, poiché, come osservano Biscuso e Gallo, “ci mostra un aspetto decisivo dell’apertura al mondo propria dell’uomo […]: l’uomo fa mondo assimilando, cioè rendendo simile a sé l’ambiente. Ma […] assimilazione non significa reductio ad unum: il sé umano non è un già-dato, un’identità con sé identica, ma potenza, possibilità plurale. Perciò l’assimilazione darà luogo a una pluralità di mondi, perché molteplici sono le modalità di esplicazione della potenza, ossia di aperture del mondo”.
Al di là del rigore di riflessioni, teorie e ricerche, tuttavia, la situazione concreta degli immigrati sul territorio italiano appare, nella maggior parte dei casi, desolante. Clandestinità, povertà e precarietà rendono deboli le posizioni di molti di loro, costretti ad accettare condizioni di vita e di lavoro troppo spesso ai limiti del disumano. È però anche vero che soprattutto là dove l’economia offre maggiori opportunità di integrazione – come nelle grandi città del centro-nord – è sempre più diffusa la presenza di immigrati occupati in attività a più elevato grado di professionalità (sanità, artigianato, commercio, alimentari), con un maggiore orientamento dei datori di lavoro a regolarizzare le posizioni contrattuali degli stranieri assunti. Spesso, però, anche nei casi di un lavoro regolarmente retribuito, evidenzia Rocca, “la componente extracomunitaria viene ad alimentare in prevalenza la cosiddetta ‘fascia debole dell’offerta’, essendo destinata a svolgere quasi sempre mansioni a modesto contenuto professionale e spesso complementari a quelle della popolazione locale. Inoltre, adattandosi a qualunque attività ed a condizioni spesso improponibili alla manodopera autoctona, gli immigrati si vengono a collocare in una posizione ‘marginale’ nell’ambito del mercato del lavoro locale, i cui connotati principali sono la clandestinità, la precarietà, la stagionalità ed un elevato turn-over”. Come risulta dal Rapporto Cisp-Unimed, l’immigrato, dunque, “è un essere solo, disorientato, privo di sostegno, spesso molto impaurito. Può portare con sé un bagaglio immenso di sofferenze, per cui l’arrivo in Italia rappresenta il punto di approdo di un lungo sogno. È questo il caso dei richiedenti asilo e di tanti immigrati che hanno dovuto sopportare enormi sacrifici per lasciare il proprio paese”.
Il mutamento delle abitudini alimentari, con i suoi molteplici significati culturali, simbolici e psicologici, rappresenta così una delle conseguenze più immediate ed evidenti subite dagli immigrati, come conferma l’indagine sulle loro preferenze alimentari. Lo “shock culturale” comportato dall’esperienza dell’emigrazione si traduce a volte in vere e proprie malattie psicosomatiche, le cosiddette “patologie di adattamento”. Come hanno osservato Scardella-Spada e altri, «la ricerca di integrazione in un nuovo ambiente richiede un forte processo di cambiamento comportamentale che fa entrare l’individuo in conflitto con i propri modelli culturali precedenti; l’essere sottoposti alla pressione di schemi culturali, frequentemente antitetici a quelli originari, conduce spesso ad una contrapposizione tra la necessità di sentirsi accettati dal nuovo ambiente ed il desiderio di rimanere ancorati alla propria cultura». Nonostante le resistenze interiori, la condivisione del cibo e del gusto del paese ospitante si rivela però alla fine la più semplice, naturale e significativa manifestazione della possibilità di una effettiva relazione sociale e culturale con l’ambiente esterno e con i propri simili. Non a caso il termine convivio, come osserva Montanari, identifica il vivere insieme (cum-vivere) con il mangiare insieme.
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