di Silvia Siniscalchi
Dopo la profonda crisi ideologica, morale e culturale del XX secolo, la cultura tradizionale dei cibi e dell’alimentazione, in contrapposizione all’alienante appiattimento alimentare della civiltà industriale, si presenta, dunque, quale efficace mediatore tra culture differenti, oltre che come strumento di recupero di un patrimonio di conoscenze pratiche, frutto della povertà e dell’inventiva della civiltà contadina. Come scrive Montanari, nell’attuale epoca del “glocale” – contrassegnata dal sovrapporsi di fenomeni di globalizzazione e localizzazione – «più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni».
Cibo, gusto e alimentazione hanno progressivamente conquistato spazi significativi nel panorama intellettuale contemporaneo. A tal proposito, osserva Deborah Lupton, «nonostante l’evidente importanza di riti e significati legati al cibo, per anni […] la sociologia ha dedicato poca attenzione allo studio del cibo e delle abitudini alimentari […]». La ragione di tale disinteresse potrebbe derivare dal disprezzo per il corpo da parte della filosofia greca di ascendenza platonica. Un’ipotesi, quest’ultima, di cui sono occupati anche Massimiliano Biscuso e Franco Gallo, con particolare riguardo al rapporto tra filosofia greca, corpo e culinaria a partire appunto dall’esclusione platonica del problema dell’alimentazione dall’ambito filosofico. Esclusione di cui però non sembrano preoccuparsi gli artisti: è famoso il caso di Giuseppe Arcimboldo, il pittore manierista che, nel suo celebre dipinto “Vertumno”, ritrae con frutta, verdura, fiori e altri elementi vegetali addirittura l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo.
Ciò a parte, con il progressivo affermarsi nel campo delle ricerche storico-scientifiche dello studio dei fattori sociali ed economici attinenti alla vita quotidiana di determinate epoche, durante gli anni Sessanta del secolo scorso hanno visto la luce una serie di studi volti a individuare e approfondire i vari aspetti legati al tema dell’alimentazione, quale elemento distintivo dell’identità culturale e storica di civiltà differenti. Ci si riferisce in particolare alla vasta produzione della storiografia francese e all’ampliamento della problematica degli studi storici impresso dalla rivista “Annales de l’histoire économique et sociale”, diretta da Lucian Febvre e Marc Bloch, i cui primi numeri appaiono a Strasburgo nel 1929. Collegata, soprattutto per quanto riguarda le fonti, alla demografia storica (Pierre Goubert), la storia dell’alimentazione, per opera di studiosi quali Emmanuel Le Roy Ladurie, si colloca anche nel contesto di una ricostruzione più ampia degli usi, dei costumi, delle mentalità e delle stesse tecniche produttive delle varie epoche storiche. Pertanto, è ormai ampiamente riconosciuto che, al di là degli aspetti meramente fisiologici del rapporto tra individui e nutrizione, gli impulsi, le abitudini e le preferenze alimentari siano prodotti dell’ambiente sociale e culturale: il cibo, infatti, quale memoria storica, oggetto di condivisione, strumento di comunicazione e interazione sociale, «diventa cultura nel momento stesso in cui entra in rapporto con uno spazio», come scrive Montalbàn.
Se l’alimentazione rappresenta uno degli aspetti fondamentali del rapporto tra uomo e ambiente, è però anche vero che tale rapporto deve essere inteso in un’accezione spazio-temporale molto ampia. Nella loro indagine, Biscuso-Gallo sottolineano infatti che l’uomo «trasforma l’ambiente, ne fa un mondo, perché lo rende simile a sé prima ancora di incorporarlo»; ciò significa che il rapporto tra uomo, mondo e cibo è psicologicamente e simbolicamente mediato: «il cibo del genere umano è assimilato a partire dal contesto sociale e psicologico del suo reperimento, adattamento e confezionamento che dipende anche (in svariate culture) da specifici meccanismi di competenze di genere e da ritualità del gesto alimentare che si incorporano in ogni momento saliente della vita associata: ci saranno così cibi per le celebrazioni felici e luttuose, per i riti di passaggio, per la meditazione e così via». Il tramite del gusto e delle preferenze alimentari delle varie popolazioni del pianeta si estende allora dalla lingua al cervello, «un organo culturalmente (e perciò storicamente) determinato, attraverso il quale si imparano e si trasmettono i criteri di valutazione. […]. Da questo punto di vista il gusto […] è un’esperienza di cultura che ci viene trasmessa fin dalla nascita insieme alle altre variabili che concorrono a definire i “valori” di una società», osserva ancora Montanari, che con l’espressione “geografia del gusto” delinea i confini ideali di identità territoriali vere e proprie: la condivisione di determinate consuetudini alimentari rafforza infatti considerevolmente il senso di appartenenza a una specifica realtà geografica, culturale, religiosa, politica, sociale; cibo e alimentazione, quali forme concrete e simboliche di un sapere complesso e, allo stesso tempo, “vissuto”, diventano patrimonio costitutivo dell’identità territoriale, trasmettendosi da una generazione all’altra.
Che la cucina rappresenti un forte fattore di aggregazione sociale – considera Piero Camporesi – lo aveva d’altra parte ben compreso Pellegrino Artusi, all’indomani dell’unità d’Italia: il suo celebre manuale “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (1891) non è solo un delizioso ricettario, ma svolge «in modo discreto, sotterraneo, impalpabile, il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, nelle pieghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea accozzaglia delle genti, che solo formalmente si dichiaravano italiane. […]. E così un numero considerevole di italiani si trovarono uniti a tavola, mangiando gli stessi piatti e gustando le stesse vivande».
Integrazione culturale e pizza nella storia: il valore simbolico del pane, del fuoco e del forno
Alla luce di tali premesse, un racconto delle vicende passate della pizza, pur breve, può a questo punto rivelarsi un utile “filo di Arianna” nell’esame delle ragioni profonde del suo valore interculturale e del suo apprezzamento da parte degli immigrati. Come si legge nel Dizionario di storia, l’elaborazione della pizza nella sua forma classica (con condimento di pomodoro, mozzarella, origano, olio e sale) risale alla metà del XIX secolo, quando si afferma come uno dei cibi più comuni del popolo napoletano. Da tempi molto antichi, tuttavia, pezzature di pane elaborate secondo analoghe procedure erano consumate in buona parte delle regioni mediterranee. Antenate della pizza, in tal senso, possono essere considerate le prime focacce della Mesopotamia, civiltà della “mezzaluna fertile” (circa VIII millennio A. C.), culla dell’agricoltura e del pane.
Si può dunque legittimamente associare il significato simbolico della pizza proprio a quello del pane, considerato, fin dall’antichità, «come magico talismano apotropaico, come sostanza vitale, simbolo della luce solare e dei grandi spazi luminosi cui è intimamente legata la potenza di tenere lontane le forze del buio, del sotterraneo, della morte», rileva ancora Camporesi. Allo stesso tempo il pane, espressione della potenza vitale della natura, è simbolo di cultura e civiltà: «nell’epopea di Gilgamesh – il primo testo letterario conosciuto, scritto in Mesopotamia circa 4.000 anni fa – si racconta che l’uomo “selvatico” uscì dal suo stato di minorità solo nel momento in cui apprese l’esistenza del pane. A farglielo conoscere, ricorda Montanari, è una donna, anzi una prostituta; in tal modo si attribuisce alla figura femminile il ruolo di custode del sapere alimentare oltre che della sessualità, ciò che d’altra parte sembra corrispondere alla realtà storica: gli studiosi sono abbastanza concordi nell’ammettere una priorità femminile nell’opera di osservazione e di selezione delle piante che accompagnò la nascita dell’agricoltura attorno ai primi villaggi». Impastati, lavorati, lievitati e cotti a legna, pane e pizza sono altresì intimamente collegati ai potenti simboli del fuoco e del forno. «Che cosa distingue il cibo degli uomini da quello degli altri animali? […] il principale elemento di diversità consiste nel fatto che l’uomo, solamente lui, è capace di accendere e di usare il fuoco, e che questa tecnologia gli permette, assieme ad altre, di fare cucina. Cucinare è attività umana per eccellenza, è il gesto che trasforma il prodotto “di natura” in qualcosa di profondamente diverso: le modificazioni chimiche indotte dalla cottura e dalla combinazione degli ingredienti consentono di portare alla bocca un cibo, se non totalmente “artificiale”, sicuramente “costruito”. Perciò negli antichi miti e nelle leggende di fondazione la conquista del fuoco rappresenta (simbolicamente ma anche materialmente, tecnicamente) il momento costitutivo e fondante della civiltà umana. Il crudo e il cotto, a cui Claude Lévi-Strauss dedicò un saggio giustamente celebre, rappresentano i poli della contrapposizione – peraltro ambigua e per nulla semplice […] – fra Natura e Cultura».