RINO MELE
Nell’estrema fragilità in cui questa universale epidemia ci mostra a noi stessi, tagliente è il rapporto tra la paura e la reazione che i non colpiti da contagio spesso assumono quasi a barricarsi dietro la debole difesa del sempre più frequente inondarsi reciproco – sull’inseparabile smartphone – di vignette, immagini comiche, brevi irresistibili sequenze filmiche, sottili ammiccamenti e grossolani cachinni. Un’irriconoscibile comunicazione rovesciata. Può la percezione del reale subire questa deformazione quando si trova a vivere uno stato serissimo e angosciante? Il 12 maggio 1825 così scrive, nel suo “Zibaldone di pensieri”, Giacomo Leopardi: “Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perché molti sono sempre bambini) e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere”. Forse è semplicemente questo che sta accadendo: nell’onda alta di questo piccolo diluvio che ci sta sommergendo i bambini non ridono, sono indifferenti o ne hanno rispettoso timore mentre gli adulti, come ci ha insegnato (inutilmente) Leopardi, scambiando il mondo per l’immensa arena di un immaginario circo, fanno matte risate dei terribili mali che vedono avvicinarsi, sperando così di sfuggirvi: per medicare, neutralizzare, esorcizzare, cancellare, negare e soprattutto spostare l’angoscia, l’ansia sporca della propria fine, in giubilo collettivo, mentre è sempre più lontana la comunità dei contagiati, numerosa, senza volto. Nel 1825, aveva solo 27 anni, Leopardi quando scrive quelle parole lucide, che scavano nelle nostre debolezze, Attraversa un tempo difficile, lontano dalla poesia. L’anno seguente scriverà un testo molto lungo,158 aspri versi (e pur ci sono guizzi sorprendenti, come la “tacita luna” del v.132) dedicati a Carlo Pepoli e che leggerà nell’Accademia dei Felsinei a Bologna il lunedì di Pasqua del 1826, il 28 marzo. Lunedì di Pasqua, un giorno come oggi.Pasqua è un mistero che fa rabbrividire: Cristo che torna sulla terra dal pallore delle tenebre. Ebbene, cosa facciamo noi, come reagiamo allo stupore che ci viene suggerito dai testi sacri? Lo irridiamo, lo deformiamo in una giocosa anamorfosi, facciamo la parodia della Pasqua il giorno dopo, ne storpiamo il nome, la chiamiamo “pasquetta” e corriamo – interminabili i fiumi di automobili sulle autostrade – a invadere campi e osterie e, molti, a ubriacarsi (quest’anno, questa festa profana a specchio del sacro è stata evitata). Oggi è quel lunedì. La resurrezione di Cristo è il suo tornare sulla terra. Inizia con le donne che all’alba vanno al sepolcro per dare al corpo morto del Maestro la dignità che non ha avuto nell’affrettata corsa alla sepoltura di due giorni prima. L’immane pietra, nel Vangelo di Matteo, è rimossa, spostata con straordinaria leggerezza da un giovane – un angelo? – davanti alle due donne tirate in quella vertigine. Secondo Luca, le donne sono tre e trovano due angeli, dalle vesti splendenti, a guardia di quel terrorizzante vuoto, la grande pietra è già rovesciata come in Marco secondo il quale un solo angelo e tre donne si trovarono di fronte nel fuoco fermo dell’alba. Queste donne sono le assolute protagoniste dello stupore della storia: come se una mano avesse afferrato se stessa per trarsi fuori dal vuoto della morte.